CHI E' ROBERTO GENTILE

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L'EDITORIALE DI ROBERTO GENTILE

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T.O. DEL MESE

BOTTA & RISPOSTA

IPSE DIXIT

saltano ceoQuando si usava l'italiano, chi guidava un'azienda si chiamava direttore generale, punto. Ora che non si può fare a meno dell'inglese, chi comanda é il managing director, e se comanda ancora di più si chiama CEO Chief Executive Officer. A prescindere dal titolo, possono saltare entrambi, e più di prima. A coppie, addirittura. Due esempi eclatanti e recenti, Expedia e Barcelò.

Lo statunitense Barry Diller, proprietario di Expedia Group con IAC InterActiveCorp, è uno che prende decisioni rapide. Due anni dopo averlo insediato al posto di Dara Khorosrowshahi, ha fatto fuori il CEO Mark Okerstorm e, già che c’era, anche il CFO Alan Pickerill (sarebbe il direttore amministrativo, ma Chief Financial Officer fa più figo). Forse stanco di pagarlo una montagna di soldi (nel 2017 Okerstrom portava a casa 30,7 milioni di dollari, soprattutto in stock options), Diller ha dato fuori di matto quando si è accorto che l’utile netto di Expedia Group del terzo trimestre 2019 era in calo del 22%, circa 410 milioni di dollari in meno. Non lo ha consolato il fatto che, nel medesimo periodo, Expedia abbia generato un giro d’affari di 26,7 miliardi di dollari, in aumento del 9% rispetto all’anno precedente: come noto, ai tycoon (in italiano, quelli molto ricchi) dà più fastidio perdere soldi, che guadagnarne (un po’) meno.

L’iberico Simón Pedro Barceló non è da meno: appena dopo l’annuncio della fusione della divisione Ávoris del Gruppo Barcelò con quella corrispondente di Globalia (nasce un colosso da 3,7 miliardi di euro di fatturato annuale, 35 marchi in portafoglio, 6.000 dipendenti e 1.500 agenzie di viaggi) il ceo di Ávoris Gabriel Subías ha rassegnato le dimissioni. Una settimana dopo se n’è andato anche il fratello: Alejandro Subías, direttore generale di Ávoris, colui che aveva “guidato l’espansione nazionale e internazionale di Ávoris, moltiplicando per sei volte le sue dimensioni iniziali”. Da noi, pochi conoscevano los hermanos Subìas, ma c’erano proprio loro due, dietro la fallimentare operazione Barcelò / Eden del 2018.

Tre semplici riflessioni: primo, perché CEO così potenti (e costosi) saltano negli Usa o in Spagna, e non da noi? Perché, come scrivevo due anni fa, a comandare in un tour operator nostrano sono quasi sempre gli imprenditori (spesso anche fondatori), non i manager. Con la sola eccezione di Alpitour, in Quality Group e Gattinoni, in Veratour e Uvet il potere è in mano a Michele Serra e Franco Gattinoni, a Carlo Pompili e Luca Patanè. Tutti circondati da ottimi manager, ovviamente, ma tutti un passo indietro.

Perché un CEO come Okerstrom viene cacciato al primo quarter (trimestre, in italiano, ma quarter fa più finanziario) negativo? Perché un CEO come Gabriel Subías, che avrebbe dovuto guidare la new-co generata dalla fusione tra Ávoris e Globalia, se ne va senza spiegazioni? Al netto di retroscena (ignoti, che ovviamente ci saranno) resta un fatto: chi ci mette i soldi, decide. Diller e Barcelò sono al comando di due imprese colossali, rispondono ad azionisti esigenti (nel caso Barcelò, di famiglia, il che è anche peggio) e - quando le cose non vanno come dovrebbero - cacciare l’allenatore è il rimedio immediato e il minore dei mali. Dopotutto, se il Manchester United esonerò lo Special One (così autonominatosi Josè Mourinho), perché dovrebbe andare meglio a Okerstrom o a Subías?

Infine, i CEO saltano più facilmente adesso di qualche anno fa? Certo che sì, perché la finanziarizzazione dell’economia comporta che - sempre più spesso - a decidere il destino di aziende (e dei suoi manager) sia l’andamento di Borsa: di un anno o di due? Macché, roba vecchia, in tempi di turbo-capitalismo un trimestre o due in rosso sono più che sufficienti. Perché perdere soldi dà fastidio, in tutte le lingue.

 

pagliara maestro manziDue marchi portano spesso Giuseppe Pagliara sulle prime pagine dei giornali: l’ascesa di Nicolaus e il rilancio di Valtur. Stavolta il direttore generale e fondatore del t.o. basato a Ostuni assume una nuova veste: quella di maestro, con tanto di lavagna e gessetti, perché gli tocca assegnare i voti al turismo italiano. Nessuna insufficienza, ma qualcuno deve impegnarsi di più. Come spiega lui stesso

8 1/2 alla mia città natale, Ostuni: non solo perché Ostuni è situata in una posizione fantastica, in una delle zone più belle della Puglia, ma anche perché è qui che, nel 1964, fu aperto il primo villaggio Valtur: oltre mezzo secolo dopo, possiamo dire che Valtur è tornata a casa

8 al Robinson Club Apulia, il villaggio che mi piacerebbe avere: immerso in un parco naturale, con un punto mare incredibile, dalle giuste dimensioni (400 camere) quindi né troppo grande né troppo piccolo, famoso da sempre sul mercato tedesco, ideale per famiglie; un villaggio unico, che rende onore alla regione che lo ospita

9 a Medtravel di Genova, la mia agenzia di viaggi preferita: agenzia storica di Genova, fondata da Erio Fenzi nel 1982, molti anni prima che nascesse Nicolaus; da qualche anno ha scelto Raro come partner di fiducia per clienti importanti e pratiche di valore: imprenditori, manager e anche calciatori sono diventati clienti Raro; un’agenzia genovese che vende (bene) un giovane tour operator pugliese, non era scontato che accadesse…

8 1/2 a Alidays, Quality Group e Guiness Travel, i miei tour operator italiani preferiti: Alidays è imbattibile sul piano tecnologico; Quality Group è un esempio per tutti, nella cura maniacale dei particolari e nella grandissima attenzione al cliente; la Guiness di Campobasso dimostra come si possa diventare operatori di riferimento anche partendo da una piccola città (come noi da Ostuni).

8 alla stagione 2019 di Valtur, e 8 pure a quella di Nicolaus: 8 di incoraggiamento a Valtur, perché il 2019 è andato bene, ma nel 2020 dobbiamo fare meglio, andare oltre; 8 di ringraziamento a Nicolaus, e al suo team in particolare, per la pazienza che ha riservato al nuovo compagno di viaggio, che tanta ne ha richiesta...

8 1/2 a Enzo Carella e a Sergio Testi, i manager che vorrei in squadra: Enzo è un amico da anni, ci ha dato una mano in passato, mi piacerebbe avesse più tempo per noi; con Sergio non ho mai lavorato, lo rispetto come professionista serio e affidabile, in grado di cambiare i destini di un’azienda: sono certo che farebbe bene anche in Nicolaus (e gli piacerebbe il nostro clima)

7 a Zoom, il nuovo contratto Alpitour: per il coraggio che il gruppo torinese ha avuto nell’applicare un contratto che sapeva non sarebbe stato facile da accettare; non è mia abitudine esprimere giudizi sulle policy commerciali degli altri t.o. e ammetto che di Zoom non condivido completamente l’impostazione, ma sono consapevole del fatto che, quando c’è un preciso progetto strategico-finanziario, gli obiettivi - e i mezzi per raggiungerli - possono essere diversi

10 a mio fratello Roberto: non perché è mio fratello e gli voglio bene, ma perché ha doti manageriali essenziali al progetto Nicolaus; il 10, però, se lo merita perché mi sopporta, mi dà equilibrio e - soprattutto - bilancia la mia irruenza!

 

tamburisocieta tip“Il lavoro di Gabriele Burgio e del suo team continua a manifestare la propria grande efficacia. Il management Alpitour resta determinato a fare tutto quanto possibile per rafforzare ancora la propria leadership” scrive nella “Lettera agli azionisti” pubblicata il 14 marzo 2019 Giovanni Tamburi, ovvero il finanziere milanese che - con la sua T.I.P. Tamburi Investments Partner SpA e la partecipata Asset Italia 1 Srl controlla il 70% di Alpitour SpA. Trattasi di un endorsement vero e proprio, quello che Tamburi riserva al presidente e amministratore delegato del gruppo torinese. Rafforzato dalla posizione di rilievo che Alpitour occupa nella comunicazione, visto che a pagina 3 (ce ne sono 15 in totale) è scritto “Il deal più importante (di T.I.P.) del 2018 è stata la seconda tranche di Alpitour, un’operazione da oltre 200 milioni”. Detto da chi, col “sistema T.I.P.” dichiara di “aver mobilitato oltre 3 miliardi di investimenti” a favore di imprese e conta oggi su “un aggregato di oltre 80.000 dipendenti e circa 23 miliardi di fatturato”, significa che Alpitour non è meno importante di Ferrari o Moncler.

Ce ne rallegriamo, era ora! Perché Giovanni Tamburi di turismo non ha mai parlato, e di Alpitour raramente. C’è una sola foto che lo ritrae accanto a Gabriele Burgio e risale a marzo 2017, ovvero all’ingresso di T.I.P. nell’azionariato Alpitour. Due anni dopo, invece, Tamburi parla di Alpitour e molto altro: di Eden Viaggi, dell’acquisto di un quarto Boeing 787 Dreamliner e di un motore di riserva (per Neos, che non viene citata), dell’accordo per la gestione di un hotel 5 stelle a Venezia e dei contratti per il Tanka Village e per il Colonna Beach (in capo a VOIhotels, non citata neanche quella).

Tre riflessioni: primo, è positivo che l’azionista di maggioranza di Alpitour parli bene del proprio management e creda al business turistico. Un finanziere che l’ha preceduto di un anno ed è uscito con le ossa rotte, il management se l’era portato da casa e i conti li ha sbagliati fin dall’inizio.

Secondo, il centro di tutto è Alpitour, non altre società o brand. Oltre a non citare né Neos né VOIhotels, Tamburi non fa alcun accenno alla distribuzione di Welcome Travel e Geo. Strano, perché nella medesima lettera (pagina 4) Tamburi dichiara una passione per il negozio su strada, come ormai raramente si sente: “In un trend globale ormai chiaro verso e-commerce, trading on-line e multicanalità potrebbe apparire un errore. Noi pensiamo che non lo sia, perché la fisicità, l’esperienza diretta, anche sensoriale, non dovrebbe essere sostituita da un click di un pc o su uno smartphone; la recente dichiarazione di Amazon di voler aumentare in modo sensibile il numero dei negozi ‘fisici’, ma anche gli ultimi dati di gruppi come Walmart ci confortano molto, anche se siamo consci di andare un po’ controcorrente”. Controcorrente al punto da investire in società che controllano “un numero di punti vendita molto rilevante”: Amplifon, OVS, Hugo Boss, Furla, Roche Bobois, Moncler e Eataly. Welcome e Geo di agenzie ne mettono assieme 2.700, non poche. Perché non citarle? “Perché sia dell’una che dell’altra Alpitour controlla solo una quota (il 50% di Welcome e il 45% di Geo, per la precisione)” mi viene fatto notare. Non vale, replico, perché di Moncler SpA, ad esempio, T.I.P. controlla molto meno. “Perché Welcome e Geo non hanno negozi di proprietà, quindi le agenzie fanno quello gli pare!”. Vero, controbatto, ma allora vale anche per “i quasi 500 negozi Furla” citati da Tamburi, dei quali solo una sessantina sono di proprietà (basta controllare il sito di Furla) e tra gli altri ci sono moltissimi “department stores e wholesale”, ovvero punti vendita che con Furla hanno lo stesso rapporto lasco e provvisorio che Alpitour ha, mettiamo, con la Manuzzi Viaggi di Cesena, agenzia affiliata Welcome. Vabbè, i manager Adriano Apicella, Luca Caraffini e Dante Colitta dovranno farsene una ragione.

Terzo, e ultimo: le 15 pagine sono redatte in toni insolitamente immediati e informali, per essere materia finanziaria. A proposito di Roche Bobois, il titolo in Borsa è sceso anche perché a Parigi “i sabati sono stati rovinati dalle manifestazioni dei jilet jaunes”. Caspita, sarà d’accordo anche Macron. Ma la chiusa è spettacolare: “Abbiamo un motto che ci caratterizza da sempre: ‘Con la reputazione che la finanza si è guadagnata negli ultimi anni dovremmo solo vergognarci, tutti; ma se riesci a convogliare capitali sani, frutto di imprese di successo e risparmi familiari desiderosi di un impiego intelligente verso società che vogliono crescere, svilupparsi, generare valore aggiunto, fai uno dei mestieri più utili al mondo”. Un finanziere che fa autocritica?! Monsieur Tamburi? Chapeau!

 

gentile2019 qthomas cook outletCi poniamo tutti la stessa domanda: “Ma questa cosa di Thomas Cook può ripetersi anche da noi?”. La risposta è no. Assolutamente no. Per quattro buone ragioni. 1. Thomas Cook era messa male da più di un decennio. Thomas Cook Group Plc nasce nel 2007 dalla fusione tra la britannica MyTravel (Airtours e Going Places) e la tedesca Neckermann. Siccome il nostro settore non ha memoria, ora tutti parlano della crisi di un'impresa britannica (e i media ci sguazzano, con 'sta storia del fondatore ottocentesco), ma dimenticano che la parte più cospicua del t.o. era quella tedesca, visto che all'epoca Neckermann si giocava con TUI il primato di maggior t.o. europeo. Nel 2007 Neckermann soffriva, ma MyTravel era alla canna del gas: il miliardo di sterline di perdite (dei due che hanno condannato Thomas Cook) arriva da lì. Questa non è la prima, ma la seconda crisi: già nel 2011 Thomas Cook era stata salvata dal baratro, grazie a una cospicua iniezione di capitali (essenzialmente serviti a finanziare i debiti). 2. Thomas Cook ha comprato troppo e male. Collocatasi sulla Borsa di Londra e quindi con un bel po' di liquidità a disposizione, cosa fa una società guidata da manager che ragionano in termini di trimestrale e lucrano generosi bonus sugli indici finanziari? Comprano! Dal 2007 a oggi Thomas Cook ha comprato piattaforme web (Hotel4U), case editrici, t.o. (Öger Tours) e anche - mirabile dictu - agenzie di viaggi. Comprese quella della Coop britannica, che già andavano male e dopo - ovviamente - peggio. Il portafoglio di 560 “high street outlets” (gli inglesi chiamano così le agenzie di viaggi su strada), frequentate da una clientela sempre più anziana e sempre più povera di mezzi, ha contribuito ad affossare la capofila. 3. Thomas Cook aveva un modello di business obsoleto. Prima di internet l'integrazione di filiera (t.o. che comprano agenzie, catene alberghiere, compagnie aeree ecc.) era di gran moda: TUI e Neckermann in Germania, ma anche Alpitour e Viaggi del Ventaglio da noi. La disintermediazione (due nomi per tutti, Ryanair e Expedia) ha massacrato il modello: se taglio i costi di distribuzione, riduco i prezzi e uccido la concorrenza. TUI, pur con qualche difficoltà, pare esserne venuta fuori; Neckermann / Thomas Cook non ha fatto in tempo. Di integrazione verticale non parla più nessuno. 4. Tra Thomas Cook e i t.o. italiani  c'è un abisso. Confrontare i mercati più evoluti (UK e Germania) col nostro non ha senso, per svariati motivi. La penetrazione di internet da noi è molto inferiore che in nord Europa: l'eCommerce turistico in Italia vale una frazione di quello europeo, e lo scontrino medio continua a essere basso (quindi sul web non si vendono crociere e viaggi di nozze). In Germania c'è (beh, c'era...) più concorrenza che da noi, perché Thomas Cook battagliava con TUI, qui il t.o. leader delle vacanze vale 4 volte il secondo in classifica, quindi ognuno cura la sua clientela e quelli bravi sanno come salvaguardare i margini. Sarà per la conformazione geografica dell'Italia, sarà che catene di agenzie di viaggi di proprietà ne sono rimaste poche (Robintur, Gattinoni, Bluvacanze), sarà che gli italiani coi pagamenti digitali ancora non si sono presi, ma se a gestire gli “high street outlets” fosse stato un network dei nostri, certo non si sarebbe tenuto sul gobbo 560 agenzie (e relativi dipendenti). Intanto, il CEO svizzero Peter Fankhauser si dichiara “devastato”, come confessa al Mail on Sunday del 28 settembre 2019: “You ask me how I feel? Desperate. And deeply sorry. I’m grateful for the loyalty of millions of customers. And I feel deeply, deeply sorry that they suffered this crisis. I can’t say more than that. I can just tell them I tried everything for this company”.Lacrime di coccodrillo (svizzero).

 

gentile2018 qL’estate 2019 sarà quella del ritorno in Turchia, in Tunisia, ma soprattutto in Egitto. Egitto significa Mar Rosso, Mar Rosso significa margini. Quelli che hanno sostenuto per decenni operatori che, appena la destinazione è andata in crisi, sono andati in crisi pure loro. Due nomi per tutti: Settemari del sig. Roci e Swan Tour di Georges Adly Zaki.

Ho già attribuito alla ripresa dell’Egitto la fine della pacchia per gli albergatori italiani, ma - se i numeri del 2018 sono stati incoraggianti - quelli previsti nel 2019 fanno ipotizzare un ritorno ai tempi d’oro. Qualche esempio degli ultimi giorni. “Partenze da Milano e Roma con voli Egyptair e tre programmi base garantiti, la programmazione sulle crociere sul Nilo di Metamondo”. “Partecipa anche Boscolo Tours alla corsa in Egitto” e il dir. vendite Salvatore Sicuso proclama: “Nei prossimi anni vogliamo essere tra i grandi player sull'Egitto: ovviamente siamo un t.o. culturale, quindi non ci butteremo mai su proposte mare con voli charter". “Egitto, Settemari rilancia. Due nuovi club nel 2019, a Marsa Matrouh e a Marsa Alam”. “A conquistare il podio in casa Veratour è il Mar Rosso: Sharm el Sheikh registra presenze raddoppiate nelle tre settimane di fine anno”.

Una cosa la sappiamo tutti: l’Egitto in generale - e il Mar Rosso in particolare - è un prodotto a budget medio-basso del quale il mercato - t.o. e agenzie - non può fare a meno, non essendo sostituibile. Per questo tutti ci si buttano a pesce. Ma ci sono tre pericoli.

Primo, troppi operatori, eccesso di offerta. Il che significa che - finché la domanda tirerà - i prezzi saranno quelli da catalogo (sempre che il catalogo esista ancora...), ma appena tenderà a scendere e saremo sotto data, l’incubo sarà l’invenduto e allora assisteremo alle solite offerte “parenti amici dipendenti” e a quelle generiche via fax (sempre che il fax esista ancora...). Secondo, a godere sono sempre le compagnie aeree. Siccome il fai-da-te è ancora minoritario e a Sharm, Marsa Alam & C. ci si va in charter, saranno Neos, Blue Panorama e le varie compagnie low-cost o similia, basate al Cairo o dintorni, a fare cassa. E non saranno loro a dover fare offerte last-minute, se i seggiolini non saranno tutti riempiti. Terzo, battaglia sui prezzi al ribasso. Siccome, soprattutto al centro-sud, il Mar Rosso è visto come destinazione low-cost, torneranno a girare le locandine con “Sharm a € 499 volo incluso” o “Marsa Alam €599 resort 4 stelle all inclusive”. Prezzi attraenti, margini ridotti all’osso. Combattere sul prezzo non conviene a nessuno: alcuni t.o., qualche stagione fa, ne avevano fatto una bandiera, e ora non ci sono più.