CHI E' ROBERTO GENTILE

rgentile sett21

L'EDITORIALE DI ROBERTO GENTILE

      bann nicolaus feb22 160x124



T.O. DEL MESE

BOTTA & RISPOSTA

IPSE DIXIT

pechino1baseA maggio 2025 sono tornato in Cina, grazie alla UNconvention 2025 World Party di Idee per Viaggiare: ho visitato Pechino, Xi’an e Shanghai e ne ho tratto 10 riflessioni, originali e - credo - non scontate.

Con la premessa che le grandi città non rappresentano tutta la Cina e che sette giorni e infinite letture sono sufficienti per farsi un’idea, ma inevitabilmente parziale...

1. Le metropoli più linde e pulite che abbia mai visto - I 24 milioni di abitanti di Shanghai, sommati ai 22 di Pechino e ai 14 di Xi’an fanno esattamente 60 milioni, ovvero l’Italia intera. Potete immaginare quanti rifiuti producano 60 milioni di persone che affollano un’area metropolitana estesa poco meno di Lombardia e Veneto messe insieme (dove però abitano solo 14 milioni di italiani). Una montagna. Eppure in centro non si trova una cartaccia per terra, un mozzicone di sigaretta, la deiezione di un cane (a parte il fatto che non ci sono cani, in giro). Nei templi, nelle strade, nei centri commerciali si aggirano silenziosi e discreti eserciti di spazzini, uomini e donne, in uniforme grigia e scopa/paletta di ordinanza, da mane a sera. Ero stato a Pechino nel 2014, che trovai ancora sporca e inquinata (nonostante i drastici interventi per le Olimpiadi del 2008), oggi ritrovo una Ginevra o una Losanna in versione cinese. Le fabbriche sono state spostate altrove e auto/moto/mezzi vanno a batteria: se non piove, nel cielo di Pechino e Shanghai si vede il sole. Una rivoluzione pure quella, rispetto a vent’anni fa.

2. I cinesi da bambini sono i più belli del mondo - Non c’è verso, sarà per la carnagione chiarissima, per gli occhi a mandorla, per i lineamenti dolci, ma bambini e bambine cinesi non hanno eguali al mondo. Sono bellissimi e noi occidentali ne siamo affascinati: in più, i genitori - almeno a Pechino, Xi’an e Shanghai - sono abituali agli stranieri, quindi li lasciano fotografare senza problemi. Immaginate una mamma milanese che porta il figlio a scuola, in pieno centro, e si imbatte in un gruppo di turisti cinesi che vogliono farsi un selfie col pargolo biondo e occhiceruleo... Da adolescenti, le ragazze sono in generale più carine dei loro coetanei maschi: mentre le prime sono estremamente femminili e curate, i secondi vestono street-wear come tutti i teen-ager del mondo e sono generalmente magri e poco muscolosi (il tipo “macho” occidentale non esiste). In templi, giardini e centri commerciali ho incontrato tanti nuclei familiari, spesso completi con nonni, figli e nipoti. I primi sono quelli che hanno potuto avere un solo figlio, i secondi non hanno fratelli o sorelle, quindi il nipotino si ritrova al centro dell’attenzione. La famiglia, in Cina, è un elemento fondante della società, si capisce anche da questo.

3. L’invalicabile muro umano di 1,4 miliardi di cinesi - Vabbè, dal 2023 gli indiani sono più numerosi dei cinesi: allora 1 miliardo e 457 milioni contro 1 miliardo e 418 milioni. Oggi i primi continuano a crescere, i secondi invece a calare, a causa di una bassissima natalità (1,1 figli per donna fertile, addirittura inferiore all’1,3 delle italiane) e ovviamente in conseguenza della “politica del figlio unico”, abolita dalle autorità cinesi solo nel 2013. “Qui, quando fate una fila” ci almanaccava la guida locale “Ricordate che per ogni italiano ci sono 23 cinesi e mezzo”. E si vedono tutti. Nella Città Proibita, per l’Esercito di Terracotta, a Pudong ti puoi trovare letteralmente davanti a un muro umano. Nulla a che vedere - però - con la “nostra” folla, quella di un concerto di musica pop o di una partita di calcio: caos e confusione, spinte e parolacce. In Cina la massa si muove ordinatamente, come un liquido, si adatta agli spazi. Nessuno ti urta, nessuno ti cammina sui piedi. Sono tantissimi, da sempre, e ci sono abituati.

4. Il ronzio della città, l’elettrico ha già stravinto - “A un certo punto ti abitui al ronzio: lo senti arrivare, di spalle. Se non ti sei già spostato, immancabile, arriva il colpo di clacson. Negli hutong (a Pechino, quartiere formato da abitazioni tradizionali a corte - ndr) il vero pericolo sono i motorini elettrici: sono tanti, alcuni vanno come frecce, principalmente quelli dei corrieri. Poi ci sono i trasporti: autobus e taxi sono tutti completamente elettrici. Quindi le auto, che hanno targhe verdi o targhe blu: le prime indicano i veicoli elettrici, le secondo quelle col motore a scoppio. A Pechino, se vuoi comprarti un’auto a combustione, il primo ostacolo che incontri è ottenere una targa: il Comune ha istituito un rigoroso sistema a lotteria, per limitare il numero di nuove immatricolazioni, quindi moltissimi richiedenti hanno poche targhe disponibili, con attese che possono durare anni. Poi, una volta ottenuta la targa blu, le auto a combustione sono soggette a blocchi del traffico settimanali, in centro e negli orari di punta, basati sull’ultima cifra della targa (le “targhe alterne” che abbiamo anche da noi - ndr). Per chi sceglie un’auto elettrica l’accesso alle targhe verdi è notevolmente facilitato e l’acquirente gode di significativi incentivi (nessuna restrizione alla circolazione, sussidi all’acquisto, facilitazione nella ricarica della batteria). Conclusione: il governo cittadino vuole creare dei problemi a chi si ostina ad avere la macchina non elettrica”. Estratto dal podcast “Zoom Cina” del giornalista e scrittore Simone Pieranni  https://choramedia.com/podcast/zoom-cina/: assolutamente da ascoltare. Aggiungo che la marca che si vede di più in giro è la BYD Build Your Dreams, sede a Shenzen, che ha appena superato la Tesla, diventando la marca di auto elettriche più venduta al mondo. Trovate la sua pubblicità nella metro: a Pechino? No, a Milano e a Roma.

5. Il Grande Fratello delle onnipresenti telecamere - Chi è il più grande produttore al mondo di sistemi di sorveglianza urbana, basati su telecamere e videoregistratori? La Hangzhou Hikvision Digital Technology Co., azienda statale fondata nel 2001, con sede a Hanghzou e 26.000 (!) ingegneri specializzati. Il marchio Hikvision è visibile sulle decine (o centinaia?) di migliaia di telecamere collocate a ogni angolo di strada, a ogni fermata dell’autobus, in ogni vagone della metropolitana. Puoi fermati in qualsiasi luogo pubblico, alzare lo sguardo ed essere certo che una telecamera ti stia riprendendo. Certo, questo è il sistema più efficiente ed economico per tenere sotto controllo i 900 milioni di cinesi che vivono in città, oltre agli stranieri, stanziali e di passaggio. Perché di delinquenza urbana (borseggi a danni di turisti, per dire) a Pechino, Xian e Shanghai non c’è traccia. E di polizia in giro ce n’è poca, rapportata al già citato “muro umano”. Certo, non è gradevole la sensazione di essere costantemente “tracciati” (dalla fotografia con annesse impronte digitali, nell’aeroporto di arrivo) e “digeriti” da sistemi di Intelligenza Artificiale, che non sanno solo chi sei e dove vai, ma anche perché sei lì e quando te ne devi andare. Ecco il Grande Fratello, che non è quello di George Orwell, ma di Xi Jinping. O del Partito Comunista, il che è lo stesso.

 

pechino2base6. La scomparsa dei contanti e l’ “universo chiuso” dei pagamenti digitali - Da boomer ho l’abitudine (ormai obsoleta, lo so) di cambiare gli euro in valuta locale, anche per vedere che aspetto hanno banconote e monete in yuan. La cassiera di Uniqlo (brand giapponese, ma rigorosamente Made in China) rimane già un po’ interdetta, quando alla sua domanda “App, credit card or cash?” rispondo convinto “Cash!”. Le spiattello 40 yuan sul bancone: tre banconote da 10, una da 5 e cinque monetine da 1 yuan. La ragazza prende le banconote, le conta due volte, le mette da parte; poi prende le monete, le conta, me ne restituisce una, poi ci ripensa, dice qualcosa tipo “scusi!” e si riprende la monetina. Ho avuto la netta sensazione che - di monete e banconote - quella giovane cassiera ne maneggi ben poche. Perché la Cina è un “universo chiuso”. Le carte di credito occidentali non funzionano e se non hai le app digitali non puoi fare nulla: prenotare un treno o pagare l’ingresso in un museo, prendere un taxi o comprare una bevanda da un distributore automatico. Il fatto è che Alipay e WeChat Pay, i sistemi più diffusi, hanno digitalizzato i pagamenti elettronici a livelli molto superiori a quelli dei portafogli elettronici occidentali (PayPal, Google Pay, Apple Pay, Amazon Pay: tanto nessuno di questi funziona in Cina). I 900 milioni che vivono in città fanno acquisti solo in digitale, costantemente e anche per pagamenti minuscoli, rendendo obsolete non solo le banconote, ma anche le carte di credito. Con WeChat Pay e Alipay trasferiscono denaro a terzi e si investono i risparmi sui fondi comuni di Ant, proprietaria di Alipay e parte della galassia Alibaba. Comodità, ma anche controllo (che fa il paio con le onnipresenti telecamere del punto 5.).

7. Prima impacchettiamo tutto con la plastica, poi (forse) ricicliamo - 60 milioni di abitanti, tra Pechino, Xi’an e Shanghai, producono una montagna di rifiuti. Quindi mi aspettavo che la sensibilità “green”, dimostrata col passaggio coatto dal motore a scoppio all’elettrico, fosse estesa anche al riciclo dei rifiuti urbani. Non ho avuto questa impressione, per due motivi: i cinesi impacchettano letteralmente tutto con la plastica, a cominciare dai supermercati (dove un singolo frutto ha il suo bell’involucro in PVC) e dai ristoranti (dove ho trovato solo bacchette in plastica, mai in legno, anche per motivi di costo, deduco). Nelle strade, nei templi, nelle stazioni i contenitori dei rifiuti hanno essenzialmente solo tre scomparti: “food waste” (resti di cibo), “recyclable” e “other waste” (non riciclabili, si deduce). La differenza tra riciclabili e non riciclabili non è chiara neanche ai locali, perché nel riciclabile ho visto piatti di plastica con resti di cibo e nel “food waste” ho intravisto bottigliette (sempre di plastica, ovvio) con bevanda colorata dentro. Poi gli onnipresenti spazzini raccolgono le bottigliette in PET dai cassonetti e le separano, attuando una differenziata lenta e analogica. In giro non ho peraltro mai notato contenitori né per il vetro né per la carta. Come sensibilità green in Europa siamo più avanti.

8. L’Esercito di terracotta e Pompei hanno tre cose in comune - Il primo impatto con i guerrieri di terracotta di Xi’an lascia senza parole. Puoi averli già visti cento volte in foto, nei libri, in TV, ma l’apparizione di 2.000 di loro, a dimensioni umane, ognuno col suo volto, ordinatamente schierati su undici file, all’interno della “fossa numero 1” (grande quanto due campi di calcio) è qualcosa che non si dimentica. Si tratta dell’esercito simbolico, realizzato tra il 246 e il 206 a.C., destinato a seguire nell’aldilà il primo imperatore cinese Qin Shi Huang, lo stesso che fece costruire la Grande Muraglia. Quasi tre secoli dopo, nel 79 d.C., dall’altra parte del mondo, l’eruzione del Vesuvio avrebbe cancellato Ercolano, Stabia e Pompei.

Xi’an e Pompei hanno almeno tre cose in comune:

1. hanno custodito per quasi duemila anni un segreto, perché i primi scavi di Pompei risalgono al 1748, mentre solo nel 1974 un contadino di Xi’an rinvenne una statua di terracotta, durante lo scavo di un pozzo

2. Xi’an e Pompei devono alle vestigia del loro remoto passato una fama imperitura, che le rende destinazioni immancabili in qualunque tour a sfondo storico-culturale, nel rispettivo Paese

3. infine, una similitudine tra le statue di terracotta, inanimate, e i calchi in gesso delle vittime dell’eruzione del Vesuvio, che hanno reso plastici gli ultimi istanti di vita degli abitanti di Pompei. In entrambi i casi, statue e vittime sono “congelati” esattamente nello stato in cui erano, oltre 2.000 anni fa. Pochissime attrazioni al mondo hanno un potere evocativo così potente.

9. Il culto dell’immagine: principesse, modelle e fotografi al seguito - A Pechino, nella Città Proibita, ti imbatti in ragazze fortemente truccate, abbigliate in costumi tradizionali, da quelli più semplici con veli e mantelli, a quelli più ricchi da principessa imperiale. Al seguito un ragazzo armato di macchina fotografica, che identifichi come il fidanzato, riprende la sua bella in tutte le pose. Pensi che sia una tradizione di Pechino, poi però vedi altre ragazze, ugualmente abbigliate, sulla Grande Muraglia, sulle mura di Xi’an (da dove partiva la Via della Seta) e a Pudong, quartiere simbolo di Shanghai. E noti che i fotografi, oltre ad avere più macchine fotografiche e smartphone, girano equipaggiati con veli, ombrellini, specchi per riflettere la luce, e che le pose sono professionali. Quindi c’è un business che prevede che una ragazza affitti un abito tradizionale e un fotografo professionista le faccia un vero e proprio servizio fotografico.

Cambio di scena: Tempio del Cielo, sempre a Pechino. È lì che ho fotografato la più bella ragazza incontrata in Cina: top nero, jeans oversize, borsetta Chanel, Apple Watch, lunghi capelli neri e visino dolcissimo. In posa davanti al Tempio, lei che si offriva con naturalezza agli scatti non solo del fotografo di ordinanza, ma anche di tutti i turisti che passavano di lì. Tra principesse e modelle di oggi, il pensiero è corso al 1972, quando Michelangelo Antonioni girò “Chung Kuo”, magnifico documentario sulla Cina in piena rivoluzione culturale maoista. I poveri cinesi di allora vestivano tutti uguali e l’uniforme “tipo” era la “giacca maoista”: colletto chiuso, quattro tasche con copri tasca a bottone, colore grigio o verde. Per uomini e donne, senza distinzione. Dopo mezzo secolo, le cinesi di oggi si vendicano della giacca dei tempi di Mao. Anche perché in Cina (non solo in città) è invalso l’uso di creare il “book” fotografico pre-matrimoniale: i futuri sposi fanno degli shooting in contesti storici o luoghi esotici, con troupe al seguito, e incorre l’obbligo di sfoggiare outfit originali e il più “disneyani” possibile.

10. Sguardo fisso sul telefonino, identico sulla metro a Pechino e a Milano - Ho fotografato i viaggiatori in un vagone della metropolitana, a Pechino e a Milano. Sono esattamente identici, si distinguono solo perché i cinesi hanno gli occhi a mandorla e qualcuno indossa la mascherina. Lo sguardo è invariabilmente fisso sul telefonino, esattamente come da noi. E come da noi, pochissimi parlano, nessuno legge un libro e tantomeno un giornale. Le app cinesi sono talmente tante che ve le elenco: WeChat (Whatsapp cinese, ma molto più vasto e strutturato); Douyin (TikTok), Weibo (Twitter/X); QQ (simil Messenger); Xiaohongshu (simil Pinterest + eCommerce), Toutiao (un aggregatore di Newsfeed); Youku (simil YouTube). Sui mezzi pubblici i cinesi si informano, guardano video e immagini, studiano tutorial, scrollano e “swipano” (da “swipe”, strisciare la punta del dito) tutto il tempo: poi, per comprare, vanno direttamente su Alipay o WeChat Pay. L’universo chiuso di cui ho parlato. Tutto digitale, allora? Non è detto. Perché il lusso di Armani Louis Vuitton Hermès Prada e Gucci si trova nei più bei negozi del centro: un po’ di cara vecchia Europa nel cuore del XXI secolo cinese.

Fine del mio reportage. Ecco la Cina che ho visto, sempre fonte inesauribile di ispirazione per noi occidentali. Stavolta, però, lasciata senza rimpianto: non è tollerabile l’impossibilità di usare Google, gmail, Whatsapp, YouTube, le carte di credito occidentali ecc. e l’impatto dei 24 milioni di Shanghai, 22 di Pechino e 14 di Xi’an non è sostenibile per più di qualche giorno...

 

whatsup408 q"I famosi oligarchi americani che tutti demonizzano - Musk Bezos Zuckerberg ecc. - si sono tutti fatti da soli. Sono imprenditori di prima generazione, non figli di papà o nipoti di nonno. Le loro aziende non esistevano venti o trent'anni fa. I loro figli non saranno alla guida dei loro imperi."

Federico Rampini, Corriere della Sera, 8 marzo 2025

Premesso che in Italia otto imprese su dieci sono a conduzione familiare (nel turismo anche di più, tra hotel, trasporti, tour operator, agenzie…) ecco cosa succede “dopo”: solo il 30% delle aziende familiari sopravvive con la seconda generazione, il 12% con la terza e un residuale 3% arriva alla quarta. Il passaggio generazionale, quindi, è un momento decisivo per le sorti di un’impresa, visto che ne causa la cessione o la sparizione in tre casi su quattro. Molto peggio delle crisi economiche, finanziarie o climatiche. Del tema mi sono già occupato qualche anno fa, evidenziando come la causa più frequente di fallimento del passaggio generazionale sia quando i figli, cioè gli eredi, non sono all’altezza del genitore, cioè del fondatore. Succede, purtroppo, spesso.

Ribaltiamo in positivo la questione e vediamo come un’impresa possa far parte di quegli “happy few” che sopravvivono. Partiamo da una semplice tabella, che elenca (parzialmente, lo so) tour operator e network italiani - a conduzione e proprietà rigorosamente familiare – di prima, seconda e addirittura terza generazione. Aziende arrivate ai nipoti ne conosco solo due: Frigerio Viaggi di Giussano, fondata nel 1974, e Carrani Tours di Roma, che quest’anno celebra addirittura il centenario dalla fondazione. La proprietà è sempre quella della famiglia fondatrice: rispettivamente Frigerio in Brianza e De Angelis/Delfini a Roma.

Dieci sono le imprese di seconda generazione, tutte note agli addetti ai lavori: dalla Mistral T.O. di Torino (fondatore Stefano Chiaraviglio, a.d. il genero Michele Serra) alla Veratour di Roma (creatura di Carlo Pompili, oggi gestita dai figli Stefano e Daniele); da Futura Vacanze di Roma (co-fondata dal “professore” Mario Brunetti e dal figlio Stefano, oggi da questi diretta) alla UVET di Milano (fondata da Francesco Patanè, condotta dal figlio Luca, con i suoi figli già in azienda). In quasi tutti i casi la seconda generazione ha fatto meglio della prima (OTA Viaggi e Viaggi dell’Elefante, per dire), ma il solo fatto di aver passato con successo il testimone agli eredi è motivo di plauso.

Ho elencato anche dieci imprese di prima generazione, tra quelle che hanno già trent’anni di storia (Idee per Viaggiare, Glamour, Gattinoni, Mappamondo) a quelle appena nate (WeRoad, Creo). Per queste ultime il problema non si pone, ma per le altre sì, eccome. Eppure due sole di esse hanno già inserito i figli in azienda: Idee per Viaggiare e TH Resorts. Vediamo di dare qualche buon suggerimento alle altre:

1. Se i figli non ne vogliono sapere, dell’impresa familiare, meglio non insistere - Ci sono settori dove si guadagna (molto) di più e non si lavora sabato, domenica e feste comandate. Se l’erede vuol fare il commercialista o l’imprenditore digitale, meglio non contraddirlo. La passione per il turismo, però, può anche spuntare successivamente: Enrico Ducrot era un archeologo, Andrea Nike Curzi (figlio del founder Danilo) laureato in Storia.

2. Portare i figli in azienda, quando sono giovani, e vedere se gli piace - “Ho chiesto ai miei figli se volevano andare all’Università, mi hanno detto di no, e io gli ho risposto ‘Ah sì?! Allora domattina in azienda!”: lo racconta così, Carlo Pompili, l’inserimento degli eredi in Viajes Ecuador (l’antesignana di Veratour). Idem per Domenico e Mario Aprea, avviati nell’albergo di famiglia dal padre Stefano. Il vantaggio del nostro settore è che ha tanti comparti, ci si può occupare di commerciale o di prodotto, di design o di tecnologia, di bilanci o di personale. Però senza passione non si va da nessuna parte.

3. Un manager esterno può aiutare, se ha deleghe e fiducia - Il passaggio da attività familiar-artigianale a impresa managerial-industriale è molto difficile, nel nostro settore ancor di più. Dei primi dieci tour operator italiani, l’unico che ci è riuscito - ma grazie ai capitali della finanza - è Alpitour. TH Resorts è un unicum, perché la coesistenza tra azionariato privato, grazie al fondatore Graziano Debellini, e pubblico, grazie all’azionista Cdp, ha dato spazio a top manager di valore come Giorgio Palmucci ieri e Alberto Peroglio Longhin oggi. Un manager esterno può essere un valore aggiunto, ma solo se collocato ai vertici dell’azienda e con deleghe adeguate: Sergio Testi in Gattinoni, in passato, e Nicola Bonacchi in Glamour, oggi, ne sono testimonianza. Però accade meno frequentemente di quando dovrebbe.

4. Cedere l’impresa ai propri dipendenti è un’opzione - Si chiama “management buyout” e consiste nell’acquisizione dell’azienda da parte dei manager/dipendenti interni, che quindi assumono il ruolo di imprenditori e proseguono l’attività dell’impresa per la quale han lavorato, magari per molti anni. Operazione molto comune all’estero, poco applicata in Italia (soltanto in contesti industriali), praticamente sconosciuta nel turismo. L’unico esempio che mi risulta è quello di Viaggi del Mappamondo di Roma, grazie all’attuale presidente Andrea Mele che, entrato nel 1984 al booking dell’agenzia Ital Atlantic Express, dove Mappamondo era un marchio che identificava il ramo tour operating, avrebbe poi creato la relativa società nel 1988 e quindi nel 2001 acquisito il ramo d’azienda, insieme al socio Marco Cifani. Può essere l’unica soluzione per non cedere l’attività a terzi e - soprattutto - garantire un futuro ai dipendenti fedeli per tanti anni.

Però, sotto alcuni aspetti, la soluzione migliore è quella adottata da Musk Bezos Zuckerberg...

 

moda3baseOggi parliamo di turismo e di moda, anzi di fashion: ormai va nominata così, visto che quella italiana è un’eccellenza mondiale. Cominciamo da un dato di fatto che merita di essere conosciuto: la milanese Via Monte Napoleone è stata insignita da Cushman & Wakefield, società immobiliare tra le più grandi al mondo, del titolo di most expensive street on the planet for luxury retail, with rents reaching €20.000 per square metre per year. Per affittare 100mq in Monte Napoleone, quindi, servono 2 milioni di euro all’anno: più di quanto costino quegli stessi metri quadri in Fifth Avenue, a New York, e New Bond Street a Londra, che completano il podio 2024. Gli Champs Élysées a Parigi e Kowloon a Hong Kong sono indietro.

Non basta: Montenapo (come i modaioli milanesi la abbreviano) è un lato del Quadrilatero della Moda, ovvero il quartiere circoscritto anche da Corso Venezia, Via Manzoni e Via della Spiga. Ecco un elenco (parziale, eh) dei brand che affollano quel chilometro quadrato: Armani, Versace, Prada, Fendi, Dolce & Gabbana, Valentino, Gianfranco Ferrè, Bottega Veneta, Bulgari, Cartier, Brunello Cucinelli, Moncler, Balenciaga, Breguet, Dior, Patek Philippe, Damiani, Missoni, Chanel, Etro, Ralph Lauren. Ci sono tutti i luxury brands, TUTTI: senza eccezioni.

Ecco tre flagship store che vanno assolutamente visitati, sia perché recentemente ristrutturati (a costi milionari), sia perché rappresentano lo stato dell’arte (mondiale, non italiano) del luxury retail: Louis Vuitton, Via Monte Napoleone 2; Ferragamo, Via Monte Napoleone 3 e Gucci, Via Monte Napoleone 7. Tutti e tre stanno in 150 metri, 200 passi o poco più.

Io ci sono stato, ecco tre cose che noi “turistici” dovremmo imparare:

1 - L’esperienza conta più del prodotto

Le agenzie vendono viaggi, quindi il servizio è fondamentale, per convincere a spendere per qualcosa di costoso e immateriale. I negozi di moda vendono scarpe e borse: se uno entra per comprare una Gucci Bamboo 1947 Vernice Nera a € 5.500 (se non sapete cosa sia, informatevi) chi vende ha vita facile: “Ecco la borsa, grazie, vada in cassa”. Invece no, sbagliato, era così anni fa. Oggi l’acquisto è esperienza, quindi la Bamboo (come le “Marylin” di Ferragamo o la “Neverfull” di Vuitton) vanno viste nel proprio contesto, il marchio ha una sua storia, un suo mondo, un suo vissuto. Se vendi Gucci o Louis Vuitton il cliente deve comprendere, assaporare, condividere lo storytelling di Gucci o Louis Vuitton, imprese fondate rispettivamente nel 1921 e nel 1854. Anche noi abbiamo brand di questa portata: Hilton o Club Med, solo per fare due nomi. Le agenzie dovrebbero fare la stessa cosa.

2 - Un sorriso cambia la vita

Attilio, formidabile CEX Manager di Ferragamo (CEX sta per Consumer Experience) lo spiega così: “Quando accolgo un cliente, la prima cosa che gli rivolgo è un sorriso, guardandolo negli occhi. E la prima domanda è: ‘Cosa posso fare per Lei?’ non ‘Cosa vuole acquistare?’. Perché stabilire una relazione è fondamentale e va fatto subito, nei primi venti secondi. E se il cliente è affezionato, la prima domanda non è: “Bentornato, cosa posso proporLe stavolta?” ma “Aspetti, mi racconti come è andato il matrimonio per il quale Lei ha comprato quelle magnifiche Mule con nastro”. La gente ama raccontarsi, una borsa o un abito possono segnare la vita, noi vendiamo sogni, non prodotti. E come tratta, Attilio, il cliente che entra in negozio e dà l’impressione di non voler comprare nulla? “Ho un bell’esempio. Tempo fa è entrato uno straniero, vestito abbastanza sciattamente, sguardo basso e ombroso. Se ne stava in un angolo, i colleghi lo ignoravano apposta, io mi avvicino, gli sorrido e gli chiedo cosa se posso essergli d’aiuto. ‘Allora” fa lui ‘Prendo quella borsa, quell’altra e pure quella lì. E quelle due là in fondo’. Il miglior cliente del giorno, e non gli avresti dato una lira”. Lezione per gli agenti che guardano i clienti “tanto questo compra su Google”…

3 - La vetrina conta, eccome

Per le sue vetrine Gucci ha creato un apposito concept, denominato Endless Narrative, caratterizzato da un’alta libreria in legno turchese, appoggiata su un tappeto della stessa tonalità, che a volte sembra riflettersi all'infinito grazie a una serie di specchi. I vari scaffali contengono opere d'arte e statue in miniatura che richiamano figure dell’antichità, ovviamente libri e volumi d’arte, inframezzati a prodotti Gucci, mostrati anch’essi come oggetti d'arte: perché tra una “Jackie” e l’opera omnia di un Warhol non c’è poi così tanta differenza.  Per Gucci “le vetrine vanno oltre la semplice funzione espositiva e diventano portali verso un mondo in cui gli oggetti ispirano e dove le storie si svolgono all'infinito, invitando il cliente ad avvicinarsi, a pensare e a scoprire nuove prospettive”.

Ecco, di nuove prospettive (anche non endless) avrebbero bisogno le vetrine di molte agenzie italiane, milanesi e non...

 

whatsup407 qSiccome viviamo un periodo talmente turbolento che le previsioni a breve termine, ma pure a medio, lasciano il tempo che trovano, ho pensato di risolvere il problema affrontando previsioni a lunghissimo termine. Vent’anni mi paiono il parametro giusto, perché 18 anni fa Steve Jobs lanciava l’iPhone, 21 anni fa Mark Zuckerberg metteva TheFacebook on line ed esattamente 20 anni fa (il 15 febbraio 2005) tre ragazzi californiani - Chad Hurley, Steve Chen e Jawed Karim inventavano YouTube.

Ecco come sarà il turismo in Italia nel 2045 (ovviamente non considerando guerre e incidenti vari):

Gen Z e Generazione Alpha saranno i maggiori consumatori di viaggi - Nel 2045 i Gen Z avranno da 33 a 48 anni e la Generazione Alpha da 20 a 32 anni, quindi rappresenteranno la fascia di mercato più numerosa e più ricca, essendo in piena fase lavorativa/produttiva. Le tendenze che già manifestano oggi saranno abitudini ormai inveterate: non si parlerà più di work-life balance perché lavoreranno di meno, in gran parte in smart-working, il south-working sarà diffuso (regioni come Sicilia e Canarie saranno colonizzate da nomadi digitali) e quindi avranno un sacco di tempo libero. La sostenibilità sarà dappertutto: viaggeranno solo con compagnie aeree e croceristi che utilizzino il SAF Sustainable Aviation Fuel; affitteranno auto rigorosamente elettriche e a condizione che l’elettricità sia prodotta da fonti rinnovabili; quando visiteranno Paesi in via di sviluppo si assicureranno che la maggior parte delle spese sostenute in loco vada a favore della popolazione locale.

L’overtourism non esisterà più e i centri storici saranno i più belli di sempre - Le grandi città d’arte saranno accessibili solo previa registrazione su apposita app e il numero chiuso sarà dappertutto. Venezia e Firenze, Capri e le Cinque Terre torneranno ai fasti delle origini, si potrà passeggiare tranquillamente e farsi una foto (i selfie saranno passati di moda da tempo) senza gente intorno. Per visitare il Colosseo o fare una gita alla Grotta Azzurra di Capri sarà necessario prenotare con mesi o anni di anticipo, ma l’esperienza sarà unica. I centri storici saranno restituiti ai cittadini perché un accordo col colosso Airbnb avrà limitato enormemente il numero di appartamenti disponibili per affitti temporanei. Il biglietto d’ingresso a Venezia o a Portofino costerà decine o centinaia di euro (comanderà lo yield), ma si potrà pagare in criptovaluta o in rate decennali con Scalapay.

Tutto sarà digitale ed elettronico, la carta sparita per sempre - Scelta, prenotazione, pagamento e fruizione dei viaggi saranno dominati dall’intelligenza artificiale generativa. Colossi come Booking.com, Amazon e Ctrip gestiranno flussi turistici di miliardi di persone e per comprare un viaggio di nozze basterà un semplice prompt ad Alexa: “Organizzami un viaggio di nozze indimenticabile, sulla base dei nostri gusti, delle nostre agende, di quanto abbiamo sul conto corrente e di quanto riceveremo come lista nozze”. Passaporti, carte d’imbarco e documenti di viaggio non esisteranno più, le postazioni di FaceBoarding saranno dappertutto e si pagherà tutto con un semplice battito di ciglia. Ovviamente saranno spariti contanti, assegni e carte di credito. Acquisti e souvenir comprati all’estero ti saranno recapitati sul balcone, quando sarai tornato a casa, con un drone.

Agenzie di viaggi e guide turistiche saranno poche e costosissime - Visto che la maggior parte dei viaggi sarà organizzata dall’AI, le agenzie di viaggi chiuderanno e ne rimarrà solo qualche centinaio, gestito da consulenti di altissimo livello professionale, grande padronanza della tecnologia ma soprattutto con un portafoglio clienti affezionati e âgée (Millennials e Generazione X, i Baby Boomer superstiti saranno ormai troppo vecchi per viaggiare). Disegneranno itinerari personalizzati, ma soprattutto avranno accesso a luoghi accessibili a pochi: una udienza privata dal Papa, un posto sulla navetta SpaceX per un week-end sulla Luna, un pranzo con l’attore premio Oscar. La loro consulenza costerà come quella di un avvocato o di un commercialista affermato. Idem per le guide, che saranno in massima parte sostituite da ologrammi generati dall’AI, che parleranno qualsiasi lingua e conosceranno perfettamente i desideri – manifesti e nascosti – del cliente che li ha ingaggiati. Le poche guide rimaste saranno delle star, avranno liste d’attesa di mesi e saranno scelte perché permetteranno di rivivere l’ormai remota esperienza di visitare la Cappella Sistina con una persona in carne e ossa che te la spiega.

Si andrà in treno da Milano a Roma in meno di un’ora. Ma a Roma Termini si farà la fila per i taxi (volanti).