CHI E' ROBERTO GENTILE

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L'EDITORIALE DI ROBERTO GENTILE

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T.O. DEL MESE

BOTTA & RISPOSTA

IPSE DIXIT

turista qil corriere su lloret 21aug qSettembre, l’estate sta finendo e per l’autunno facciamo almeno tre buoni propositi turistici. Tempo di bilanci, quindi: azzardiamo un paragone tra il turista “di massa” del 2022 e quello del secolo scorso. Chi è più stupido?

Premessa. Le ferie di massa nascono nel secondo dopoguerra, frutto del benessere diffuso dopo gli anni bui del conflitto. Nella nostra memoria collettiva rimangono tre pietre miliari, film che tutti abbiamo visto chissà quante volte: “Vacanze romane” del 1953, con Gregory Peck e una deliziosa Audrey Hepburn, che scorrazzano in Vespa in una Roma senza traffico; “Il sorpasso” del 1962, capolavoro di Dino Risi, con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant, quando la villeggiatura durava due mesi e i romani benestanti si trasferivano a Castiglioncello; “Sapore di mare” del 1983, però ambientato nella Versilia del 1964, dove la tesi degli autori, i fratelli Vanzina, era semplice: “Eh, come si stava bene allora!”. Ed era solo il 1983, non sapevano quello che sarebbe successo dopo.

Si dice che in vacanza venga fuori il meglio e il peggio di noi stessi. Ora mi chiedo: gli italiani in vacanza, negli anni ’50 e ’60, erano stupidi? No, erano ingenui e arruffoni, sempliciotti e confusionari, ma non stupidi.  Erano ignoranti? Un po’, ma se ne vergognavano e, tornati a casa, volevano che i figli studiassero. Oggi, gli italiani in vacanza sono stupidi? Sì, più di prima. Sono ignoranti? Meno di sessant’anni fa, ma l’ignoranza è diventata un vanto, non una vergogna.

Tre casi a sostegno della mia tesi, tutti passati agli onori della cronaca:

1. La stupidità di morire per un telefonino. Andrea Mazzetto era un bravo ragazzo rodigino di 30 anni, il 20 agosto in escursione sull’Altopiano di Asiago, con la fidanzata. Ovvio che la coppia pubblichi delle Stories su Instagram, ovvio che per farlo si facciano del selfie. Il Gazzettino pubblica anche l’ultimo, quello immediatamente precedente il volo mortale di 100 metri, nel vuoto, che Andrea fa nel tentativo di recuperare il telefonino. Che gli era sfuggito di mano.

2. La stupidità di chi cerca lo sballo. Il titolo del Corriere dice tutto: “A Lloret de Mar, tra gare di sesso, droghe low-cost e niente regole: «Qui ci sfasciamo»”, devastante reportage del 22 agosto sulla mecca delle vacanze ultra low-cost, dal quale estrapoliamo solo due passaggi: “Qui possiamo sfasciarci. Ti fanno fare tutto. La gente non è come in Italia, che si stanca e chiama i carabinieri. La gente è tollerante. Se uno si ingegna, e becca in anticipo il volo low-cost al minimo, se salta i pranzi, con cento euro ti fai un bel po’ di giorni di vacanza”. Al racconto del cronista “A Lloret de Mar, qualora le condizioni lo permettano, gli abitanti d’estate spariscono. Se gli alberghi son pieni, li sostituisce il mercato immobiliare. Ci danno notizia di affitti di cantine e posti-letto in terrazza (su sdraio o stesi sul pavimento)” aggiungiamo soltanto che - se la Spagna è al secondo posto al mondo, per arrivi internazionali, e l’Italia al quinto, dal primo detenuto ai tempi di Vacanze romane - lo deve anche a luoghi infernali come Lloret de Mar.

3. La stupidità di chi vive di apparenze sui social. “Ma certe persone non si so’ rotte le palle di pubblicare quello che mangiano, mentre ballano abbracciati e poi si odiano, le panoramiche nelle discoteche tutte uguali, i tuffi dai motoscafi di lusso comprati facendo i buffi? Ma possibile essere diventati così cafoni?”. Chi è l’autore di questa intemerata romanesca, alla Catone il Censore? Un insospettabile Christian De Sica, il "re dei cinepanettoni" su Instagram (e dove se no?!) a Ferragosto. Rimbeccato (chi l’avrebbe detto?!) dall’Enrico Vanzina di “Sapore di mare”: “Io sono d'accordo con Christian se lui si riferisce alla fiera della vanità su tette, lati B, muscoli fotopostati per far rosicare gli amici. Su questo ha perfettamente ragione. Ma è anche vero che non c'è solo questo, perché se si mettono sui social contenuti alti, la risposta è straordinaria. Se stimolata bene, l'Italia è migliore”.

Ecco, chiudiamo con questa professione di fede, l’Italia è migliore. Bella lì

marchio difficolta qNe cito solo quattro: InViaggiTeoremaColumbusMarcelletti. Cos’hanno in comune questi quattro gloriosi tour operator? Caduti in disgrazia e praticamente cessata l’attività, i rispettivi marchi sono stati rilevati (spesso dai curatori fallimentari) da altri t.o., che mirano a rilanciarli. Questo solo negli ultimi tre anni. Val la pena acquisire un marchio, magari spendendo un sacco di soldi? Sono più i rischi o i vantaggi? Usciamo dal turismo e vediamo cosa è successo in altri settori. Il bilancio offre più ombre che luci e bisogna avere la pazienza di leggere fino in fondo.

Abbigliamento giovanile: Guru - La parabola del marchio di abbigliamento creato da Matteo Cambi a Parma, nel 1999, è balistica, ovvero dalle stelle alle stalle in una manciata di anni. Da zero ai cento milioni di euro del 2006, dalle prime magliette artigianali distribuite agli amici a milioni di T-shirt vendute in tutto il mondo: nei primi anni 2000 la margherita stilizzata a sei petali colorati, con contorni neri marcati, diventa un love-mark, indossato da calciatori e soubrette televisive, deejay e protagonisti del gossip da spiaggia. Nel 2008 il tracollo: 100 milioni di debiti, Matteo Cambi prima arrestato e poi condannato per bancarotta fraudolenta, l’azienda devastata anche dai consumi folli (case, elicotteri, orologi, cocaina e droghe varie) del titolare. Dal 2008 a oggi il marchio Guru passa di mano tre volte: acquisito dal colosso indiano Bombay Rayon Fashion Limited, nel 2016 la sua partecipata italiana, Brlf Italia, chiede il concordato preventivo; nel 2019 subentra la svizzera Ibs Sagl di Lugano, che però affida la commercializzazione alla monegasca Ghep, che nel 2021 diventa l’unica titolare di Guru. Oggi sul sito di Guru l’iconica T-shirt con la margherita si compra con 30 euro, ma chi se la ricorda più?

Sportswear: Sergio Tacchini, Fila, Ellesse - Negli anni ’70/’80 gli italiani erano i più bravi e innovativi creatori di abbigliamento sportivo nel mondo. Altro che Nike o Adidas. Limitandoci al tennis, Sergio Tacchini, marchio creato nel 1966 dall'omonimo tennista, vestiva Jimmy Connors e Ilie Năstase, Adriano Panatta e John McEnroe. Fila, fondata a Biella nel 1911, nel 1973 diventa Fila Sport e veste Guillermo Vilas e Björn Borg (che con l’iconica polo in cotone a costine vince cinque tornei di Wimbledon consecutivi). La perugina Ellesse, fondata nel 1959 da Leonardo Servadio, da cui prende le iniziali, nel 1975 comincia a produrre abbigliamento da tennis e veste Corrado Barazzutti, che nel 1976 vince l’unica Coppa Davis per l’Italia, in Cile. Sergio Tacchini, Fila ed Ellesse sono marchi tuttora presenti nello sportswear, ma - da molti anni e dopo innumerevoli vicende societarie - non appartengono più ai fondatori, né hanno sede in Italia. Dal 2019 Sergio Tacchini fa capo a due private equities americani, Twin Lakes Capital e B. Riley Principal Investments. Nel 2007 Fila viene acquistata dall’imprenditore sud-coreano Gene Yoon e a Biella rimane solo la Fondazione Fila Museum, che accoglie oltre 30.000 tra capi di abbigliamento, scarpe e accessori a marchio Fila. Dal 1994 Ellesse è un marchio della holding britannica Pentland Group, che controlla tra gli altri Speedo e Berghaus. Nessuno dei grandi tennisti italiani di oggi indossa questi marchi, ormai diventati “heritage brands”: Matteo Berrettini veste Boss, Jannik Sinner e Lorenzo Musetti sono sponsorizzati da Nike sin da quando erano ragazzini.

borg mcenroe qGelati: Grom - L’Italia è considerata la patria del gelato e non poteva che nascere a Torino, nel 2003, l’avventura del manager ex PWC  Federico Grom e dell’enologo Guido Martinetti. Occupa 25mq la prima gelateria Grom, a pochi minuti da piazza San Carlo: con un capitale di partenza ridottissimo, cui contribuiscono parenti e amici, si fonda su un’idea di marketing precisa, “Il gelato come una volta”. In un unico stabilimento nella cintura torinese e solo con ingredienti di prima qualità, a chilometro zero e da presidi Slow Food, vengono prodotti i semilavorati dei vari gusti: questi, confezionati e surgelati, sono distribuiti alle gelaterie per essere miscelati, mantecati e serviti al pubblico. Il prezzo di vendita è più quello di una pasticceria torinese, che di una gelateria su strada. La crescita è esplosiva: decine di Grom aprono in Italia e all’estero (New York, Londra, Hong Kong) e dopo i 16 milioni di euro di fatturato, nel 2009, si toccano i 23 milioni nel 2011. L’avventura imprenditoriale indipendente di Grom e Martinetti termina bruscamente nel 2015, quando - reduci da alcune difficoltà finanziarie - cedono Grom alla multinazionale britannico-olandese Unilever, che in portafoglio dispone già di vari marchi di gelati industriali, tra cui Algida e Magnum, Carte d’Or e l’americana Ben&Jerry’s. Da allora Grom sbarca nei supermercati con le classiche vaschette da frigo, chiude diversi punti vendita in Italia e dice addio all’artigianalità che l’aveva caratterizzata fino ad allora. Grom e Martinetti restano nel board per diversi anni, pur con sempre minore autonomia gestionale, ma sembrano non condividere più la strategia di Unilever: negli USA è la GDO a intermediare quasi il 97% delle vendite, lasciando alle gelaterie una quota residuale, e il gelato in vaschetta è consumato tutto l’anno. La gelateria con coni e coppette, aperta solo 6 mesi l’anno, non funziona più.

Formazione: Pegaso Università Telematica - Nel 2006 Danilo Iervolino, napoletano, classe 1978, figlio d’arte (il padre Antonio fonda le Scuole Paritarie Iervolino per far recuperare la bocciatura ai cattivi studenti) ha un’idea meravigliosa, ispirata da due accadimenti, uno pubblico e uno privato. Nel 2003 era stato emanato il decreto “Moratti-Stanca” che istituiva le università telematiche; Iervolino si era appena laureato in economia a Napoli e durante un soggiorno negli USA aveva scoperto la formazione a distanza e le nuove piattaforme tecnologiche che - grazie al boom mondiale di internet, si era nel 2002 - si stavano sviluppando. Nel 2006 nasce l’Università Telematica Pegaso, con la forma giuridica di società per azioni, della quale Iervolino è presidente del CdA e maggiore azionista: Pegaso ottiene l’accreditamento del Ministero dell’Istruzione e attiva i primi due corsi di laurea, in giurisprudenza e scienze della formazione. In un sol colpo, Iervolino rompe il monopolio statale (o privato, ma solo per eccellenze come Università Cattolica o Bocconi, Luiss o IULM) e impone il modello della formazione a distanza, basata sul PC e sull’interazione col docente. Il successo è immediato: i corsi di laurea si moltiplicano, sedi di esami si diffondono a decine in tutta Italia, a iscriversi e laurearsi (il titolo è equiparato a quello ottenuto in una università tradizionale) sono prima in migliaia, poi in decine di migliaia. La svolta arriva un anno fa, a settembre 2021: il private equity britannico CVC Capital Partners rileva l’intera proprietà della holding, a cui fanno capo Pegaso Università Telematica e l’Università Mercatorum, valutando l’asset - la cifra è ufficiosa - un miliardo di euro. Danilo Iervolino rimane nel board, ma investe i guadagni in nuove attività, comprando prima la Salernitana Calcio (e qui incrocia Gerardo Soglia ex CIT e Buon Viaggio Network), poi il settimanale L’Espresso da Gedi/la Repubblica.

Due note a margine: di tutte le imprese citate, l’unica a non aver ceduto proprietà/marchio causa difficoltà finanziarie o industriali è quella di Iervolino. Guru, Sergio Tacchini, Fila, Ellesse, Grom e Pegaso - tutte eccellenze italiane - oggi sono in mani straniere.

Conclusione, per i pazienti lettori arrivati fin qui: è costoso e complesso rilevare un marchio, soprattutto se questo è in difficoltà (o peggio). Per questo rimango perplesso sul rilancio di tour operator che hanno vissuto tempi migliori. Nel nostro settore, è un’eccezione: nessuno si è mai sognato di rilanciare marchi come Jolly Hotels o Motel Agip, CIGA o Metha Hotels; e tantomeno Alpi Eagles o Volare Airlines, AirOne o Gandalf. E neanche Alitalia, pensa te.

 

pagliara bros qLe aziende familiari rappresentano la stragrande maggioranza delle imprese italiane nel turismo, e non solo. Se molto sappiamo delle dinamiche del passaggio generazionale, è invece raro apprendere di aziende gestite - pariteticamente - da fratelli o sorelle che insieme quell’azienda hanno fondato. Nella moda i fratelli Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo Benetton fondarono l’azienda omonima nel 1965 e mezzo secolo dopo l’hanno consegnata - in salute, compresa la dotazione AdR Aeroporti di Roma - alla seconda generazione. Nel turismo italico abbiamo tre casi: il fondatore che cede l’azienda prima di passarla ai figli (Silvio Maresca di Bluserena nel 2021, Giuseppe Boscoscuro di Viaggidea e Franco Rosso di Francorosso molti anni fa); i figli che cedono l’azienda dopo averla fatta crescere (Guglielmo Isoardi dopo Lorenzo Isoardi, di Alpitour); i figli che ricevono l’azienda in salute e ne fanno strame (non faccio nomi, ma li conosciamo tutti).

 

Il caso Nicolaus, quindi, fa storia a sé. Nel 2003 i fratelli Giuseppe e Roberto Pagliara fondarono Nicolaus Tour, a Ostuni (BR), come ricettivista locale. In quasi vent’anni l’impresa si è trasformata e oggi sono tre le aree di business presidiate: hotel management, immobiliare e tour operating. Solo in quest’ultimo ambito i marchi commerciali sono quattro: Nicolaus, Valtur, Turchese e Raro.

 

Se andare d’accordo tra padri e figli è complicato, forse peggio tra fratelli. Per citare un caso extra-settore, a febbraio 2022 l’influencer da milioni di follower Gianluca Vacchi - dopo anni di litigi col fratello minore Bernardo - lo avrebbe liquidato con un pacco di milioni di euro (qui per chi vuole approfondire). “Mio fratello ha un’idea di business tutta sua” dichiarava l’aziendalista Bernardo a proposito del fratello star dei social, ben riassumendo la vexata quaestio, ovvero che ognuno la pensa a modo suo.

 

In questo, Nicolaus è un modello da prendere a esempio, perché Giuseppe e Roberto vanno d’accordo e i numeri danno loro ragione. A mio giudizio, quattro sono i motivi alla base di questo risultato:

 

1) Ognuno presidia un’area di business e non pesta i piedi all’altro

Roberto Pagliara è presidente del Gruppo Nicolaus, mentre l’a.d. è Giuseppe Pagliara. Giuseppe presidia la parte corporate, istituzionale e finanziaria; Roberto supervisiona l'area tecnologia, digitalizzazione e innovazione: in CdA, insieme, disegnano le strategie di gruppo, comprese le operazioni M&A e sales. I compiti sono ben definiti, le responsabilità non si sovrappongono, le attività più operative - quelle dove il confronto spesso è più acceso - sono delegate a una prima linea di manager molto coesa e affiatata.

 

2) Nicolaus Tour è di Ostuni e al sud i rapporti familiari tengono più che al nord

Può suonare un luogo comune, ma è proprio così: le reti familiari sono più forti al meridione che altrove, gli esempi sono noti, non solo nel turismo. Da Roma in giù non è che i fratelli vadano più d’accordo che da Firenze in su, ma il vincolo familiare è tenuto in maggiore considerazione. Anche perché si fanno più bambini, le famiglie sono più numerose, matrimoni e battesimi sono preziose occasioni d’incontro, alle feste comandate ci si ritrova tutti insieme. Difficile litigare in CdA, se il giorno dopo si va tutti al battesimo dell’ultima figlia appena nata.

 

3) Giuseppe e Roberto Pagliara hanno fatto altri mestieri, prima di Nicolaus

Il “turistico” di famiglia è Roberto Pagliara, che in avvio di carriera - dal 1997 al 2004 - è stato responsabile commerciale sud Italia del glorioso (oggi uscito di scena) tour operator aostano Eurotravel. Commerciale al sud significa macinare migliaia di chilometri, visitare agenzie in paesini sperduti, trattare con agenti che ne hanno viste di tutti i colori: una grande palestra, quindi. Il “politico” di famiglia è invece Giuseppe, dal 1998 al 2001 assessore al Turismo, Sport, Spettacolo, Industria, Commercio, Artigianato, Agricoltura e Urbanistica (!) del Comune di Ostuni e da sempre coinvolto nelle attività della cittadina natale, all’epoca appena sfiorata dal boom turistico. Hanno fondato Nicolaus a trent’anni compiuti, evitando errori che - senza quelle esperienze - avrebbero probabilmente compiuto.

 

4) La politica dei piccoli passi è condivisa e perseguita da sempre

Se un fratello è Luigi XIII di Francia e l’altro è il cardinale Richelieu, può funzionare. Ma se uno vuole invadere la Polonia e l’altro in Polonia vuole andare solo a cacciare lepri e fagiani, allora è il caos. Non fare il passo più lungo della gamba è il mantra che si respira dal 2003 e la sua validità si vede quando le cose van male, non il contrario. Non a caso, Nicolaus ha superato la crisi pandemica, ha fatto acquisizioni, si è fatta trovare pronta alla ripresa. Non era scontato: quando si cresce a due cifre e davanti all’ufficio hai file di bancari (che vogliono prestarti soldi) e di fornitori (che vogliono farseli dare) è difficile non cedere alla hỳbris.

 

whatsup 343 q“Le imprese turistiche non trovano 300mila stagionali per la prossima estate ha dichiarato il ministro Garavaglia, che ne attribuisce la colpa al reddito di cittadinanza. Vabbè, fosse quello il problema. Ne ho già scritto in tempi non sospetti: gli stagionali (bagnini, barman, camerieri, governanti ecc.) sono carne da cannone, ovvero in gran parte poveri cristi “usa” (in alta stagione) “e getta” (subito dopo). Oggi però intendo citare tre profili turistici un po’ più alti di lavapiatti e facchini, perché per compagnie aeree, tour operator e agenzie di viaggi sarà sempre più difficile trovare assistenti di volo, addetti al booking e banconisti. Per quattro semplici motivi:

1) Perché le professioni turistiche non hanno più il fascino di una volta

Quando ho iniziato il mestiere, tanti anni fa, occuparsi di viaggi era cosa buona e bella. Facevi un figurone, al bar con gli amici: in confronto col neo-avvocato in vista dell’esame di Stato, col neo-commercialista trattato come garzone di bottega, col laureato in lettere in trepida attesa del concorso di ruolo. Il solo fatto che si viaggiasse (“Beh sì, alle Canarie per una settimana, certo, a lavorare, non è che sia così divertente...” con tanto di sopracciglio alzato) era motivo di invidia. Ma lo era anche volare (steward e hostess di volo erano praticamente delle star), lavorare in villaggio come animatore (repetita iuvant, Fiorello ha iniziato lì) e pure fare il banconista in agenzia (“Certo, mi tocca imparare il catalogo VentaClub a memoria, i clienti non mi chiedono che quello!”). Prima della globalizzazione, di Google e delle low-cost, viaggiare era molto più complicato e chi veniva pagato per farlo era un privilegiato.

2) Perché si viene pagati poco e male, e si resta precari per anni

Il turismo paga poco da sempre, perché è un settore a bassi margini e modesta scolarizzazione. Ma guadagnare poco vent’anni fa, prima dell’iPhone e dei social, era un conto; ora è un altro. Basta leggere le rivendicazioni di piloti, assistenti di volo e personale Ryanair, Malta Air, Crewlink, Volotea ed easyJet, che l’8 giugno 2022 hanno scioperato per “il mancato adeguamento ai minimi salariali del CCNL, il mancato pagamento della malattia, il rifiuto delle compagnie di concedere giornate di congedo obbligatorio durante la stagione estiva”. Chi può dar loro torto? Poi si capisce perché un aeroporto come Amsterdam Schiphol sia in pieno caos da settimane. Idem per t.o. e agenzie, che vengono da 25 mesi da tregenda, e certo non possono permettersi contratti a tempo indeterminato e RAL adeguate al ruolo.

3) Perché chi ha perso il lavoro (lasciato a casa o in cassa integrazione per anni) se n’è trovato un altro, non nel turismo

Negli USA il fenomeno ha assunto valenza sociale col nome di “The Great Resignation” (Wikipedia: “Also known as the Big Quit and the Great Reshuffle, is an ongoing economic trend in which employees have voluntarily resigned from their jobs en masse, beginning in early 2021 in the USA and spreading to Europe through 2022”). Da noi nessuno lascia il posto fisso, quindi a rimanere a casa (non confermati i contratti a termine, o in CIGS per mesi e anni) sono stati i dipendenti di compagnie aeree e aeroporti, tour operator e DMC, immolati per sopravvivere alla crisi. Quando poi quegli stessi datori di lavoro li hanno ricercati, dopo, molti han risposto: “Ah, ora mi chiami?! Beh, ho un altro lavoro, non m’interessi più ne’ tu ne’ il turismo!”. Dove sono finiti? Facile: edilizia, trasporti, logistica, web. Noi non li rivedremo più.

4) Perché non c’è più la gavetta e sei non sei “chief” di qualcosa non sei figo

Ora dico qualcosa che farà incaxxxxe qualcuno (cit. Zaia by Crozza). Ai miei tempi, quando entravi in agenzia timbravi cataloghi, quando ti prendevano (fortunello) in un t.o. ti toccava rispondere al telefono o fare la Madonna Pellegrina in giro per agenzie della bassa padana. Un mese, un anno? Ma de che! Stagioni e stagioni, prima che da praticante, junior o comunque “colui che deve imparare il mestiere, quindi ora et labora, e tasi” potessi salire uno scalino e cominciare a fare carriera. Magari uno straccio di laurea ce l’avevi pure, ma contava fino a un certo punto. Oggi che la laurea ce l’hanno tutti, cito Giulio Benedetti, dottore commercialista in Milano, che denuncia: “Una certa fascia di ‘imprenditori’ costituiscono agenzie viaggi iscrivendosi alla sezione delle start-up innovative o Srl benefit: me ne sono già capitati diversi, in generale sono neo-laureati (a Milano o Roma, le facoltà sono sempre le stesse...) affascinati da queste nuove qualifiche. Vantaggi concreti non so, ma va di moda”. Ecco, va di moda, altro che praticante o primo impiego. Oggi mi si presentano candidati neanche trentenni (faccio l’head-hunter per quadri e dirigenti, chi segue questa rubrica lo sa) coi seguenti job title: CCO Chief Communication Officer, CIO Chief Innovation Officer, CVO Chief Visionary Officer, CDO Chief Digital Officer e via di chief in chief, ad libitum. A me, anziché intervistarli per una volgare posizione in azienda, vien voglia di chieder loro se possono mettere una buona parola per il sottoscritto, da Elon Musk o Mark Zuckerberg.

Ecco perché compagnie aeree, tour operator e agenzie dovrebbero tenersi buoni i dipendenti che hanno (e pagarli il giusto!), oggi più che mai. Domani non so, perché leggo che “grazie al Metaverso, in realtà immersiva sullo smartphone, sarà possibile visitare la Ciudad Perdida o Atlantide, l’Antica Roma o Marte”. E Firenze o Venezia, Parigi o Berlino? Seee, roba vecchia, un chief di qualcosa le schifa.

tempi moderni avengers endgame qScomparso e fatto a pezzi Thomas Cook, Tui è diventato il tour operator numero 1 del mondo occidentale, dall’alto dei quasi 20 miliardi di euro di fatturato, nel 2019. Ma ad Hannover sanno che “il tradizionale business dei tour operator si sta rivelando volatile per l’intero settore” e che tagli dovranno essere fatti, a cominciare da TUI Italia (la ex Viaggi del Turchese), sulla quale cala il sipario. Ma non è tutto, perché i tedeschi sottolineano che “in Italia TUI continua a essere rappresentata da altre società controllate, come il fornitore di escursioni digitali Musement”. Ecco qui, morto un papa (tradizionale e analogico), se ne fa un altro (digitale e innovativo).

Questo post intende rispondere a due domande: il modello di business del tour operating tradizionale, quello integrato orizzontalmente e verticalmente, attivo su tutta la filiera, è morto? La risposta è si. Chi l’ha ucciso? La rete ovviamente, ma anche nuovi player che - con la filiera tradizionale - c’entrano poco. Ne elenchiamo tre.

Il primo, Musement, TUI se l’è comprato nel 2018 e la definizione sopra citata (“fornitore di escursioni digitali”) non rende pieno merito alla piattaforma on line di tour e attrazioni che Alessandro Petazzi e i tre soci milanesi hanno fondato nel 2013, prima alimentato con due cospicui round di investimenti e poi venduto a caro prezzo ai tedeschi. Ottimo esempio di come si possa soddisfare una domanda latente (le ormai stucchevoli “esperienze”, che nel 2013 non si chiamavano neanche così) e agganciare un mercato che vive su social e smartphone.

Social e smartphone, ovvero il mercato giovane (Millennials e Gen Z) e iperconnesso che WeRoad conosce bene, essendo una “community di viaggiatori, che fa partire tutto l'anno in gruppi omogenei per età e mood di viaggio alla scoperta di Paesi e culture lontane, ai quali piace l’avventura, il divertimento e vivere la cultura del posto” come recita la home page del sito, che raccomanda - ça va sans dire - di andare “sul gruppo Facebook per conoscere i tuoi compagni di viaggio!”. Un po’ Avventure nel Mondo versione III° Millennio. WeRoad appartiene alla holding milanese OneDay Group, guidata dal ceo e founder Paolo De Nadai e famosa per ScuolaZoo Viaggi, l’operatore fondato nel 2007 (quindi non l’altro ieri...) e specializzato in viaggi ed eventi per studenti. Giovani e studenti che - ça va sans dire anche qui - in agenzia di viaggi probabilmente non ci hanno mai messo piede. E forse mai ce lo metteranno.

Cito da ultimo Travel Appeal, leader italiano “nelle soluzioni di business intelligence e brand reputation management”, fondato a Firenze nel 2013 dal ceo Mirko Lalli. Mentre Musement e WeRoad vendono o producono prodotti turistici, Travel Appeal vende conoscenza, perché intende “aiutare il settore travel a districarsi tra tutte le informazioni disponibili in rete e rispondere alla nuova domanda e alle nuove esigenze del mercato”. In pratica, analizza i dati delle destinazioni e delle singole attività che ne fanno parte (hotel, b&b, ristoranti, musei, trasporti ecc.), comprese recensioni e conversazioni, allo scopo di misurare il “travel appeal” della singola struttura o dell’intera destinazione.

Cos’hanno in comune Musement, WeRoad e Travel Appeal? Tre cose: sono frutto di intuizioni di imprenditori che non sono nati agenti di viaggi o tour operator; considerano conoscenza e tecnologia come elementi fondanti del proprio business; metà dei loro dipendenti sono informatici o tecnici, l’altra metà ha meno di 35 anni. Tutto questo poteva essere fatto, più o meno, da un tour operator o da un’agenzia “tradizionali”? No, ovviamente. E TUI, almeno per uno dei tre, l’ha capito.