CHI E' ROBERTO GENTILE

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L'EDITORIALE DI ROBERTO GENTILE

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T.O. DEL MESE

BOTTA & RISPOSTA

IPSE DIXIT

whatsup384 qFederalberghi Roma, in occasione dell’appuntamento annuale dell’Albergatore Day snocciola dati invidiabili: il 2023 è stato un anno record, per gli hotel della Capitale. Quasi 14 milioni di arrivi (+ 5,60% sul 2019) e 32,5 milioni di presenze (+2,65% sul 2019). Grazie agli americani che continuano ad arrivare e considerato l’Anno Santo del 2025, Roma ormai se la gioca con le grandi capitali: Parigi, Londra, Berlino, anche New York.

Di personale stagionale, stranamente, non si è parlato granché. Eppure la questione è fondamentale, visto che nel 2024 milioni di vacanzieri invaderanno non solo le città d’arte, ma anche il Mare Italia (“Nuova impennata dei viaggi in Italia” prevede il presidente FTO Franco Gattinoni). E infatti qualcuno comincia a muoversi:

- Egnazia Ospitalità Italiana, il nuovo gruppo di gestione alberghiera fondato da Aldo Melpignano, per Borgo Egnatia e altre quattro strutture selezionate cerca: front office, guest relations, porter (facchino - ndr), economato, sala, sommelier, cucina, plonge (lavapiatti - ndr), pasticceria, bar, housekeeping, reservations, logistica, allestimenti, spa, bagnini e manutenzione.

- Icon Collection del Gruppo Ficcanterri, per i due resort in Toscana, ricerca: manutentori, facchini, commis di sala, commis di cucina, chef de rang, hostess, cuochi, camerieri/baristi, receptionist, guest relation, housekeeper (governanti - ndr).

Se poi su Google fate la query “lavoro stagionale hotel Italia” trovate che i profili ricercati dalle piattaforme più popolari (Indeed, Monster, Infojobs) sono gli stessi: camerieri, receptionist, governanti ecc.

Perché si cercano così tanti stagionali e - ovviamente - non si trovano? E, una volta trovati, come mantenerli?

Al tema ho già dedicato un articolo (l’equiparazione tra stagionale e carne da cannone non era il massimo, lo so), ma eravamo in pieno post-Covid. Nel 2023 il turismo ha contribuito per 1/4 alla crescita del PIL nazionale sul 2022 (fonte: Intesa Sanpaolo all’Albergatore Day) quindi il settore è in piena ripresa.

Provo a elencare alcune cause:

1. lavoro stagionale è spesso lavoro di basso livello e mal pagato: camerieri e baristi, governanti e facchini sono occupazioni che richiedono bassa professionalità e spesso poca, o nulla, esperienza; chi trova un posto altrove (corrieri, edilizia, grande distribuzione) non torna a lavorare in hotel o in villaggio;

2. lavorare 12 mesi all’anno è meglio che lavorarne 8 (o 4): come i maestri di sci (che d’estate facevano i boscaioli) o i bagnini (che d’inverno s’inventavano manovali) gli stagionali hanno sempre avuto un doppio lavoro, ma contare su uno stipendio per 12 mesi è una cosa, solo per 8 o meno, un’altra, soprattutto in tempi di inflazione come quelli attuali. Chi trova un contratto per tutto l’anno, rimane lì;

3. in alta stagione non si lavora più 7 giorni su 7, 12 ore al giorno: quando ho fatto il G.O. al Club Med, nel remoto 1993, si lavorava tutti i giorni, dal mattino alla sera, e ti andava bene se recuperavi un pomeriggio libero alla settimana; oggi non è più così, ed è anche giusto; ma è ovvio che se prima - per coprire un ristorante sul mare - servivano quattro camerieri, oggi ne servono almeno sei (e i prezzi del menù aumentano, anche per quello);

4. i giovani non vivono per lavorare, molti lavorano per vivere (e avere una vita personale): la questione è nota, rimando a un mio pezzo che ha suscitato molti commenti; in breve, i giovani che scelgono il turismo devono essere accolti e trattati bene, altrimenti vanno altrove.

Concludendo, come risolvere il problema? Prendo a prestito le sagge parole di Francesco Monti, titolare di Hotel Mediterraneo, prestigioso 5* stelle di Sorrento, aperto 8 mesi l’anno: “Noi puntiamo tutto sulla fidelizzazione: l’85% del nostro personale è fedele, il restante 15% ci arriva col passa parola. Siamo a gennaio, e abbiamo già brigata e staff pronti per la stagione".

 

whatsup383 qIl 9 gennaio del 2007, diciassette anni fa, Steve Jobs presentava al mondo l’iPhone, ovvero il primo smartphone. Lui era un genio e trasformava in oro tutto quello che toccava, ma anche i Re Mida sbagliano. Google Glass, il metaverso e Hyperloop, invenzioni rispettivamente di Sergey Brin e Larry Page (Google), Mark Zuckerberg ed Elon Musk (Re Mida anche loro) rappresentano tre “epic fail” tecnologici, ovvero tre fallimenti clamorosi e inattesi.

Ne ripercorriamo la storia, per constatare che le cose che NON funzionano hanno sempre qualcosa in comune: è un po’ lungo, ma la materia è complessa. Premessa: non sono un esperto di tecnologia, riporto quanto pubblicato dai media e mi scuso per le inevitabili semplificazioni.

La prima versione dei Google Glass, presentata nel 2013, consisteva in un paio di occhiali dotati di realtà aumentata, tramite i quali visualizzare informazioni come sugli smartphone, ma senza l'uso delle dita. L’elemento distintivo degli “smart glasses” era il mini-display collocato su una stanghetta, spostabile a discrezione dell’utente, che consentiva di visualizzare applicazioni, video e contenuti multimediali come se fossero proiettati da uno schermo ad alta definizione da 25 pollici, a una distanza di due metri. Completavano il device una fotocamera per registrare video e scattare foto, un touchpad collocato accanto al display, audio a conduzione ossea, connettività Wi-Fi e Bluetooth, 12 GB di memoria. Questo video spiega come funzionassero i Google Glass, che sarebbero stati prodotti in due versioni: l’Explorer Edition, rivolta al pubblico, che venne ritirata dal mercato nel 2016 (ne erano stati venduti qualche decina di migliaia di esemplari, al costo di circa 1.500 dollari); l’Enterprise Edition, presentata nel 2017 e progettata per le aziende, soprattutto in ambito medico e scientifico, e arricchita della “gesture recognition”, ovvero dalla possibilità di interagire con le applicazioni tramite il movimento degli occhi. A marzo 2023 Google ha sospeso la vendita anche della versione Enterprise e annunciato che avrebbe concentrato i propri sforzi sulle nuove tecnologie di AR Augmented Reality, ma senza occhiali.

Nel 2021 il metaverso scatenò una tempesta di hype paragonabile solo a quella che, due anni dopo, avrebbe suscitato AI, l’intelligenza artificiale, grazie soprattutto a ChatGPT di OpenAI. Ma mentre l’AI rappresenta probabilmente la maggiore sfida tecnologica del decennio, l’universo virtuale progettato da Mark Zuckerberg - che cambiò persino il nome di Facebook in Meta, per rispecchiare la nuova mission - fatica a imporsi. In questo video (90 minuti, ma guardatelo tutto, ne vale la pena) la versione analogica, ovvero in carne e ossa, e quella digitale, ovvero l’avatar, di Zuckerberg illustravano il nuovo ambiente in cui avremmo interagito, socializzato e complessivamente spostato le nostre vite: “Our company is now Meta. Abbiamo una nuova stella polare: dare vita al metaverso. D’ora in poi, al primo posto per noi ci sarà il metaverso, non Facebook”. I motivi per i quali il metaverso non ha funzionato sono troppi per essere citati qui (riporto solo un titolo del New York Times di un anno fa: “Skepticism, Confusion, Frustration: Inside Mark Zuckerberg’s Metaverse Struggles”), ma quello che mi preme sottolineare è la distanza tra le aspettative del creatore di FB, che lui stesso definiva “uno dei prodotti più usati nella storia del mondo”, e l’impatto del metaverso, solo due anni dopo.

Nel 2012 Elon Musk, fondatore di realtà innovative come PayPal, SpaceX e Tesla, lancia Hyperloop: un treno a levitazione magnetica che avrebbe collegato Los Angeles a San Francisco su una linea sopraelevata (formata da una coppia di tubi di acciaio sollevati a sei metri da terra e posti su piloni di cemento distanti 30 metri l’uno dall’altro) impiegando 35 minuti e quindi percorrendo i 560 chilometri che separano le due metropoli californiane a una velocità media di 970 km/h, con punte di 1.200 chilometri orariQuesto video ne illustra le immaginifiche caratteristiche. Da allora esperti di innovazione nei trasporti, ingegneri, informatici, manager, venture capitalist e startup di tutto il mondo si misero in moto per realizzare il progetto, volutamente pensato in modalità open source, affinché chiunque ne avesse le competenze potesse sviluppare autonomamente l’idea iniziale di Musk. Decine di società sono state fondate in tutto il mondo, allo scopo di sottoscrivere accordi con le ferrovie locali e le aziende municipali, quindi ricevere finanziamenti e costruire il sistema (una anche da noi, Hyperloop Italia di Bibop Gresta). Il 21 dicembre 2023 Bloomberg annuncia che l’americana Hyperloop One (la maggiore delle società create ad hoc, che dal 2014 aveva raccolto 450 milioni di dollari in fondi di venture capital) ha dichiarato fallimento, chiuso gli uffici e licenziato i dipendenti. Fine della storia, nonostante le illusorie speranze di Bibop (che a dire il vero si chiama Gabriele) Gresta.

Ecco cosa, a mio sindacabile giudizio, accomuna questi fallimenti epocali:

1. Il tocco da Re Mida non funziona sempre. Anche se ti chiami Elon Musk, Marc Zuckerberg o Sergey Brin (era lui che nel 2013 andava in giro con il prototipo di Google Glass nella metro di New York) e le hai azzeccate praticamente tutte, succede che ne sbagli una. Premesso che sono proprio i Re Mida a dover provare e fare errori (sono gli unici a poterselo permettere, data la mole di denaro ferma sui loro conti, in attesa di acquisizioni o di sviluppo di nuove tecnologie), proprio da loro ci attenderemmo di sapere perchè abbiano gettato tutti quei soldi al vento e dove hanno sbagliato. Perché - gli imprenditori lo sanno - si impara più dagli errori che dai successi. P.S. secondo Business Insider, in due anni il metaverso sarebbe costato a Meta 46,5 miliardi di dollari di perdite; Musk ne ha spesi 44 (sempre billion-dollars) per comprarsi Twitter: che oggi, come X, vale meno della metà.

2. Guardarsi indietro e pensare avanti, ma non troppo. Il metaverso di Zuckie, almeno nella versione originale, assomigliava molto a Second Life, altro “epic fail” di inizio millennio, che non riuscì a convincerci che spendere soldi per farsi una “second life” fosse meglio che investirli nella “first life”, ossia che il virtuale (lavoro, affetti, eventi) fosse meglio del reale. Inoltre il metaverso nasce in piena pandemia, quando eravamo tutti costretti a casa e quindi l’idea di avere un avatar libero per il mondo era molto attraente. Forse, prima di mettere in secondo piano Facebook, la gallina dalle uova d’oro, e diventare tutto Meta, Zuckerberg avrebbe fatto bene ad aspettare un po’.

3. Il prodotto non basta, ci vuole l’ecosistema adatto. Che senso ha sparare un passeggero a 1.000 km all’ora se il punto d’arrivo si trova a 5 km da una stazione ferroviaria o a decine da un aeroporto, e magari deve attendere mezz’ora per trovare un taxi? Che senso ha un metaverso la cui caratteristica costruttiva è la interoperabilità, ovvero la possibilità di spostarsi da una piattaforma all’altra conservando la propria identità e i propri beni digitali, se di piattaforme sul metaverso ne esistono svariate (Horizon Worlds di Meta, The Sandbox, Decentraland più quelle gaming di Fortnite e Roblox) e nessuna interagisce con l’altra?

4. Chiedersi qual è il valore aggiunto per il cliente / fruitore. Perché l’iPhone è stato un successo planetario? Perché ha messo nelle mani di 8 miliardi di terrestri un telefono, un PC, una macchina fotografica, un traduttore istantaneo, una lampada tascabile, uno scanner, uno specchio... e potrei continuare. I Google Glass “non erano utili, non assolvevano ad alcuna esigenza reale" commenta Warren Craddock, ex Senior Software Engineer di Google “I team di sviluppo erano troppo concentrati nel progetto per misurarsi con la realtà e non si sono mai chiesti quale valore aggiunto giustificasse la spesa di 1.500 dollari per indossarli”. Ci sono prodotti che “comprendono” la propria funzione anche dopo essere stati inventati (Amazon nasce come e-commerce di libri, Netflix per ricevere DVD per posta), ma i Google Glass, Hyperloop e il metaverso questa funzione - unica e insostituibile - non l’hanno mai trovata.

 

whatsup372 qA Ostia ombrellone e lettino costano 50 euro, in Salento parcheggiare l’auto (abusivamente) costa 10 euro, a Como dividere un toast a metà costa 2 euro. “Prezzi impazziti”. “Crollo delle presenze di agosto in Sardegna”. “Il Governo intervenga”. Questi i titoli agostani dei giornaloni.

Ebbene, io affermo che pagare un sacco di soldi per ombrellone, spritz e fritto di mare è cosa buona e giusta. E provo a dimostrarlo.

Premessa teorica. “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale”. È sulla celeberrima affermazione tratta da “La Ricchezza delle Nazioni” dell’economista e filosofo scozzese Adam Smith (1723-1790) che si fonda la teoria liberista, secondo la quale un ordine economico può realizzarsi soltanto attraverso il libero svolgimento di attività individuali. In un libero mercato, la quantità richiesta di un bene (ovvero la Domanda) è inversamente proporzionale al prezzo del bene stesso: più alto è il prezzo (quindi l’Offerta), minore sarà la quantità richiesta. Riportato ai giorni nostri, se Marisa Melpignano, titolare della Masseria San Domenico a Fasano (che ha ospitato Madonna, Beckham e Chiara Ferragni) dichiara a “la Repubblica”:“Noi non abbiamo registrato alcun calo, la stagione sta andando bene” e vende una suite a 3.000 euro a notte, significa che Adam Smith aveva ragione.

Ad avere torto - sempre a mio parere, ovviamente - sono le anime belle che si scandalizzano e scrivono amenità del genere: “Quello che fa arrabbiare del turismo nostrano è la masochistica resistenza al cambiamento: non miglioriamo quasi niente, l’offerta è sempre la stessa, ci facciamo dei gran sogni sugli allori, tranne stressare oltre ogni limite la leva dei prezzi”. Cito la fonte: Fulvio Giuliani, prima pagina de “la Ragione” del 5 agosto 2023. Sarei curioso che il giornalista ci spiegasse quale sia “il limite dei prezzi da non stressare”: per una pizza, ad esempio. Al taglio da 5 euro, la Crazy Pizza di Briatore da 32 euro o quella gourmet con l’oro a 24 carati da 99 euro? È il mercato, signora mia.

1. La qualità si paga. “Chi decide di soggiornare da noi richiede e ottiene un servizio particolare. È esigente e la qualità premia sempre” sottolinea la signora Melpignano “Se un ristoratore chiede cifre sproporzionate, però mettendo in tavola tovaglioli di carta e cibo non di qualità, non ci stupiamo che gli ospiti rimangano a cena da noi, visto che a tavola trovano tovaglioli di lino e vengono serviti da personale che conosce le lingue”. Lo scandalo è mangiare spaghetti allo scoglio scotti e serviti da camerieri scortesi, a prescindere dal prezzo.

2. La comodità si paga. Testimonianza personale. L’ex premier Mario Draghi ha casa a Lavinio, costa tirrenica a sud di Roma, e scende in spiaggia alle 6.30 del mattino, per godersi il mare in solitudine. Il suo stabilimento affitta ombrellone e due lettini, ad agosto, a 30 euro. Per uno spuntino bastano 15 euro e il caffè costa poco più di 1 euro. A 200 metri di distanza si trova la spiaggia libera: ben tenuta, comoda da raggiungere, non costa nulla; e il bagno si fa esattamente nello stesso punto mare dove si tuffa Super Mario.

3. Le spese (pregresse) si pagano. Stabilimenti balneari e pizzerie, come fornai e negozianti, come aeroporti e compagnie aeree, sono reduci dal peggior biennio della storia moderna. Nel 2020/2022 non c’è stata solo una crisi, ma un’ecatombe, che ha causato danni incalcolabili, soprattutto a chi ha tenuto duro. A chi ha (spesso, non sempre) rimesso del suo e paga coi guadagni di oggi i debiti contratti ai tempi del Covid. La focaccia di Recco a 30 euro al chilo è più cara di quella del discount, ma la signora Pina che te la serve è lì da trent’anni, e speriamo che dio la mantenga in salute.

4. L’Italia è lusso, quindi si paga. Ho recentemente visitato il Museo Gucci (si chiama Gucci Garden) in Piazza della Signoria, a Firenze: magnifica la storia di un’impresa creata da un fiorentino, che ha appena compiuto 100 anni e detiene uno dei brand più amati al mondo. Nello shop, una giacca da donna in cotone costa 2.700 euro. Stesso modello, stesso cotone (ovviamente senza quel taglio e senza l’iconico monogramma con la doppia G) costa on line, da H&M, € 59.99. Ecco, l’Italia (non tutta, ovviamente) è come Gucci, si paga la qualità e pure il marchio, cioè la storia e la cultura del nostro Paese. A Saranda, costa albanese a sud di Tirana, ombrellone e lettino si trovano ancora a 10/15 euro e una birra a 5. Prezzi da fast-fashion.

 

whatsup382 qSeleziono quadri e dirigenti per le aziende turistiche: mai come quest’anno mi son trovato in difficoltà nel trovare manager seri, preparati e soprattutto motivati. Ruoli e retribuzioni che - solo qualche anno fa - avrebbero attratto candidati a frotte, quest’anno ne hanno attirati poche decine. Quelli bravi si trovano, certo, ma meno che in passato.

Della difficoltà di reperire profili intermedi, tipo assistenti di volo o banconisti, ho già scritto. La questione investe tutti i livelli, dal più basso al più alto, ma anche tutti i settori, non solo il turismo. Mi spiego.

Il Censis, meritorio istituto di ricerca socio-economica fondato da Giuseppe De Rita e diretto da Massimiliano Valerii, ha appena pubblicato il “57^ Rapporto sulla situazione sociale del Paese”. Quello citato in tutti i tiggì perché definisce “sonnambuli” gli italiani del 2023, ovvero ciechi dinanzi ai presagi, insensibili all’impatto dirompente che alcuni processi socio-economici largamente prevedibili (denatalità e invecchiamento, per dirne due) avranno sulla nostra società. Per approfondire, basta cliccare qui, è tutto (meritoriamente) gratis.

Ma qui ci occupiamo di lavoro, quindi il capitolo che c’interessa è quello intitolato “Il tempo dei desideri minori”: “È il tempo dei desideri minori: non più uno stile di vita all’insegna della corsa irrefrenabile verso maggiori consumi come sentiero prediletto per conquistarsi l’agiatezza, ma una più pacata ricerca nel quotidiano di piaceri consolatori per garantirsi uno spicchio di benessere - magari temporaneo e reversibile - in un mondo ostile. Il 74,8% dei lavoratori oggi dichiara esplicitamente di non avere voglia di lavorare di più per poter consumare di più, e non ha intenzione di farsi guidare come in passato dal consumismo. Il lavoro sembra aver perso il suo significato più profondo, come riferimento identitario, perno centrale della vita, misura del successo personale e dell’affermazione sociale, oltre che mezzo di gratificazione economica. Per l’87,3% degli occupati mettere il lavoro al centro della vita è un errore e un plebiscitario 94,7% rivaluta la felicità derivante dalle piccole cose di ogni giorno, il tempo libero, gli hobby, le passioni personali”.

Esempio reale, un mio colloquio di selezione: propongo a una manager 35enne (un talento, come li chiamiamo noi) di cambiare azienda e le prometto più soldi, più benefit, più bonus, più possibilità di carriera. In cambio, le comunico che dovrà abituarsi a una multinazionale (viene da un’impresa familiare), dovrà viaggiare di più, passerà più tempo all’estero che in Italia. Tutte cose scontate, quando si cresce di ruolo. La candidata mi guarda perplessa, ma io sono già pronto a incrementare la RAL, ad aumentare i bonus, a darle una berlina anziché una familiare, come auto aziendale. Nulla di tutto questo. Mi chiede quanto tempo dovrà passare lontano da casa, quanti giorni di smart-working al mese sono previsti, se le conference-call sono adottate come sistema per limitare le trasferte, se il welfare prevede corsi di lingua per le figlie e abbonamenti a circoli sportivi per il marito. Di soldi non si parla proprio. Le mie risposte non la convincono, se dopo un paio di giorni mi dice che preferisce rimanere dove sta.

Potrei farne altri di esempi, anche per ruoli di staff, dove le mie proposte - ovvero, delle aziende che mi hanno incaricato - vengono rifiutate (anche) perché la sede dell’azienda è dall’altra parte della città; (anche) perché andare in ufficio quattro giorni su cinque, e non due, è troppo; (anche) perché in famiglia c’è un bimbo piccolo, entrambi i genitori lavorano, e quindi lui (il candidato) non può stare troppo fuori casa. In tutti questi casi, l’aspetto economico è secondario.

Conclusioni, valide per tutti, non solo Millennials e Gen Z (altro errore comune). Causa pandemia e guerre, in un mondo considerato ostile, questo è il “tempo dei desideri minori”, della ricerca di felicità derivante dalle piccole cose di ogni giorno, della rinuncia a guadagnare di più per consumare di più. “Non è il rifiuto del lavoro in sé” sancisce il Censis “Ma un declassamento del lavoro nella gerarchia dei valori personali”.

Ai miei tempi, fare carriera, guadagnare di più, potersi permettere auto e casa erano i parametri coi quali ci si misurava col mondo. Oggi, non più. Avevamo torto noi?

 

whatsup373 qSarà perché il titolo era provocatorio (“È giusto che ombrelloni e lettini costino un botto!”) o perché delle vacanze (come del calcio, o del meteo) tutti parlano volentieri, ma il mio pezzo è stato molto letto e molto commentato, soprattutto da chi NON si occupa di turismo. Ne traggo quindi una insperata lezione di “sociologia vacanziera”: ecco i tre temi che fanno imbestialire gli italiani vacanzieri ad agosto.

1. No, il toast dimezzato a 2 euro no! Nella temperie di ricevute, fatture, conti scarabocchiati sulla carta del macellaio, che ha caratterizzato questa estate all’insegna degli aumenti, uno scontrino da 2 euro ha spaccato. Riassumo per i pochi che se lo siano perso (fonte, ANSA): “Due euro in più perché hanno chiesto di avere il toast tagliato a metà: è quanto accaduto a fine giugno in un bar a Gera Lario, nel Comasco”. “Eravamo in due e abbiamo chiesto un toast vegetariano, che al tavolo avremmo mangiato insieme. Abbiamo pagato un supplemento di 2 euro, incredibile ma vero..." denuncia il cliente, che ha postato la foto dello scontrino su TripAdvisor, scatenando ovviamente una shit-storm nei confronti del gestore del bar. Il quale ha timidamente replicato: “Se un cliente mi chiede di fare due porzioni di un toast devo usare due piattini, due tovaglioli e andare al tavolo impegnando due mani. È vero che il cliente ha sempre ragione, ma è altrettanto vero che le richieste supplementari hanno un costo”.

Perché questo episodio (e tanti altri simili) ha fatto così rumore? Perché la sensazione che hanno gli italiani in vacanza è che TUTTO sia aumentato: il caffè e la pizza, il fritto misto e l’aperitivo, il parcheggio e la camera d’albergo, la benzina e il mohito, ma soprattutto ombrellone e lettino (vedi punto 3.). Il che è vero, ma non nei termini scandalizzati di tanti leoni da tastiera: “Vergognatevi! Costa tutto il doppio dell’anno scorso!”. Lo certifica l’ISTAT, a luglio 2023: l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC) si colloca al 6% su base annua (quindi l’inflazione, di pochino, ma si abbassa); contribuiscono a ciò l’incremento su base annua dei prezzi di acqua, elettricità e combustibili (+ 9%), di alimentari e bevande analcoliche (+ 10,7%), dei servizi ricettivi e di ristorazione (+8%), mentre calano di una unità i trasporti.

Ne consegue che un ristoratore o un albergatore che ha aumentato il suo listino del 10/15% è onesto; se l’incremento è del 30 o 40% è un truffatore. Però l’italiano medio crede di essere circondato da truffatori che attentano alle sue tasche, più che da onesti imprenditori che stanno sulle spese.

2. La mia esperienza vale per tutti e non la si contesta, punto! Quello che mi ha lasciato di stucco, in decine e decine di commenti, è che vengono fatte affermazioni tranchant (“Il turismo crolla!” “I prezzi sono aumentati del 50%!” e soprattutto “L’Albania è più bella della Puglia e costa la metà della metà!”) basandosi sull'esperienza personale, su ricordi ormai annebbiati, su titoli di giornali scorsi nel feed di FB. Se io volessi affermare che l’Albania ha avuto un boom epocale, magari prima andrei a vedermi qualche numero, dal quale desumerei facilmente che il numero di arrivi internazionali del Paese delle Aquile, in tutto il 2023, è stimato pari a 10 milioni (2,5 milioni in più del 2022), ovvero il doppio di quanto l’Emilia Romagna ha registrato nel primo semestre 2023 (solo l’Emilia Romagna, solo 6 mesi). E magari mi accorgerei anche che l’unico aeroporto internazionale dell’Albania è Tirana (l’Emilia Romagna ne ha 4).

Però l’italiano medio desume dal suo soggiorno in rifugio sul Gran Sasso che l’Abruzzo è più economico della Val d’Aosta, dal suo campeggio nel Cilento che in Sicilia avrebbe speso il triplo, dal suo aperitivo a Ladispoli che non si possono spendere 30 euro, per lo stesso spritz, a Punta Ala. Una parte per il tutto: si chiama sineddoche, e non è un aperitivo.

3. La categoria più odiata? I gestori degli stabilimenti balneari. Non c’è gara: non gli albergatori né i tassisti, non i ristoratori né i baristi e neanche i parcheggiatori abusivi. Bastano due delle decine di commenti ricevuti: “Le spiagge devono essere gestite dallo stato perché sono di tutti e i prezzi dovrebbero essere calmierati perché noi tutti paghiamo le tasse” e “Il gestore di una spiaggia non è un imprenditore privato! Sfrutta una risorsa pubblica, pagandola un prezzo irrisorio, per imporci un pizzo. Io non voglio lo stabilimento balneare! Lasciatemi la spiaggia libera, come all’estero e come da Costituzione!”. Glisso sull’articolo che i Padri Costituenti hanno dedicato alla sacralità del libero e democratico spiaggiamento dei cittadini italiani (se no qualcuno mi cita il “discorso del bagnasciuga” di un deprecato romagnolo), non entro nel merito dell’applicazione della direttiva Bolkestein e quindi mi limito a un’osservazione simil-sociologica.

Nell’arco di poche decine d’anni, siamo passati dalla villeggiatura (lusso per pochi fortunati) alla vacanza di massa, “aggravata” dal portato della pandemia. Tradotto: ci siano convinti del fatto di andare in vacanza (in Sicilia, non a Ladispoli) come diritto inalienabile e irrinunciabile, come una sorta di: “Ma io lavoro tanto, spendo tanto per fare la spesa e pagare le bollette, le MIE vacanze sono sacre e intoccabili!”. E siamo ancora più convinti che lo Stato dovrebbe in qualche modo garantircelo, questo diritto, ovviamente punendo i reprobi (gestori balneari in primis) e facendo in modo che le nostre vacanze costino un prezzo equo. Quale? Boh, a ognuno il suo. “Come l’araba fenice: Che vi sia, ciascun lo dice; Dove sia, nessun lo sa” declamava il Metastasio (che non gestiva uno stabilimento balneare né era socio del Twiga, per sua fortuna).